Il Futuro dello Spazio

La nuova geopolitica
della corsa all’universo

Il Futuro dello Spazio

La nuova geopolitica della corsa all’universo

“La nostra vita, nel senso della qualità del nostro vivere collettivo, oggi è, e sempre più sarà, space-based”

Settembre 2017. Notte.

Da qualche parte oltre l’atmosfera, attorno ai 36mila chilometri di quota, due puntini luminosi viaggiano uno accanto all’altro. L’uomo che, con un telescopio, li sta osservando da una piattaforma in mezzo al mare, riesce a distinguerne bene soltanto uno. L’altro è un’intuizione.

Li ha scorti per caso, spostando l’obbiettivo, ma ci si è soffermato. Perché a lui, all’uomo sulla piattaforma, quel che vede sembra un inseguimento. Nonostante la purezza di un cielo primordiale, a centinaia di chilometri dalle luci del primo centro abitato, non riesce a capire cosa stia succedendo: il puntino luminoso più piccolo si avvicina a quello più grande. L’uomo li segue fino a quando il riflesso del Sole abbandona i pannelli solari.

Poi la coppia di satelliti si copre di buio. E l’uomo finalmente punta lo sguardo su Sirio, che brilla come non l’aveva mai vista. 

Emilio Cozzi

Emilio Cozzi

Giornalista e autore. Scrive regolarmente per Wired Italia, Forbes Italia, Il Corriere della sera e Il Sole 24 Ore, testate per cui si occupa di cultura digitale, critica videoludica, e-sport e divulgazione aerospaziale.

Anche alla Direction Générale de l’Armement, in Francia, tengono d’occhio quei due puntini. Da diversi giorni ormai, con tracciatori radar e telescopi ottici. La luce più grossa è Athena-Fidus, un sistema satellitare per comunicazioni a banda larga capace di assicurare disponibilità e autonomia in circostanze di emergenza nazionale. Sviluppato dall’Agenzia spaziale italiana e dal Centre national d’études spatiales, nell’ambito di accordi fra i due enti e i Ministeri della Difesa, Athena-Fidus ha usi sia civili che militari

L’altra luce, la più piccola, è Launch-Olymp – i russi lo chiamano “Olymp K” – satellite spedito in orbita il 28 settembre del 2014 dal Cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, lo stesso da cui sono partiti Samantha Cristoforetti, Luca Parmitano e Yurij Gagarin. 

Lancio del Launch-Olymp (28/09/2014, Kazakistan)

Non si sa molto di Launch-Olymp, a parte il fatto che adesso sia a pochi chilometri da Athena-Fidus. Che nello spazio significa di fianco. 

“Era vicino”, commenterà un anno dopo Florence Parly, ministra francese della Forze armate, “talmente vicino che avremmo potuto credere stesse captando le nostre comunicazioni. Lo sorvegliamo attentamente, del resto abbiamo visto che continuava le sue manovre nei mesi seguenti presso altri obiettivi, ma domani, chi ci dice non ritornerà accanto a uno dei nostri satelliti?”.
“Era vicino”, commenterà un anno dopo Florence Parly, ministra francese della Forze armate, “talmente vicino che avremmo potuto credere stesse captando le nostre comunicazioni. Lo sorvegliamo attentamente, del resto abbiamo visto che continuava le sue manovre nei mesi seguenti presso altri obiettivi, ma domani, chi ci dice non ritornerà accanto a uno dei nostri satelliti?”.

Nella foto: il Ministro francese delle Forze Armate Florence Parly

A oggi, i dettagli di cosa sia accaduto in quella notte imprecisata di settembre rimangono riservati. Due cose però sono note: la prima è che l’8 settembre del 2019, lo Chef d’état-major de l’Armée de l’air et de l’espace ha dato vita al Commandement de l’espace, un servizio interforze dell’esercito francese per presidiare la frontiera extra atmosferica – “Se non reagiamo, siamo in pericolo”, aveva avvertito Parly. 

La seconda cosa nota è che quell’uomo, da qualche parte in mezzo al mare a contemplare Sirio, è stato senza saperlo l’unico testimone “dal vivo” di una competizione nuova: quella per il predominio del futuro. La nuova corsa allo spazio. 

Via da ipotesi fantascientifiche o da scenari alla 007, mentre un secolo fa la terra si controllava dominando il mare, come sosteneva il genio della geopolitica Nicholas John Spykman, oggi il Pianeta si domina presidiando lo spazio.

Lo testimoniano investimenti, attività e programmi di chiunque, pubblico o privato, già oggi partecipi alla conquista del nuovo eldorado siderale. Soprattutto, però, è il legame fra quello che succede oltre l’atmosfera e le nostre attività quotidiane, qui sulla Terra, a dimostrarlo. Un legame così stretto da giustificare un’affermazione solo all’apparenza roboante: la nostra vita, nel senso della qualità del nostro vivere collettivo, oggi è, e sempre più sarà, space-based

Non è un caso, come conferma il centro studi The Union of Concerned Scientists, che in questo momento nelle orbite più prossime alla Terra (cosiddette “Leo”) galleggino 2612 satelliti, sui 3372 complessivi. Ancora più indicativo è che nel prossimo decennio si prevede ne verranno lanciati altri mille, ogni anno, sebbene il solo Elon Musk, per completare la mega costellazione “Starlink” progettata per fornire una connessione internet globale a banda larga e a bassa latenza, punti a farne volare 12mila.

Satelliti in orbita

Nella foto: SpaceX Starlink Mission

Prima di procedere, andrebbe allora chiarito perché lo spazio si appresti a diventare trafficato come mai prima. Perché, nonostante una crisi sanitaria così grave da riscrivere l’agenda delle priorità globali, la frontiera extraterrestre non smetta di attrarre risorse. Per farla breve, andrebbe subito chiarito perché lo spazio sia una meta tanto ambita da innescare la gara globale per decidere, o almeno orientare, il nostro destino collettivo.

La risposta è rapida e, a fasi alterne a seconda del momento storico, identica da mezzo secolo: lo spazio è strategico. Due nuovi fenomeni, però, lo stanno riconfigurando: il primo è la new space economy, cioè un modo inedito di approcciare e sviluppare il settore, un modo di “fare spazio” fondato sui principi della maggiore accessibilità e della digitalizzazione. Il secondo fenomeno è la militarizzazione delle orbite, altrimenti detta space weaponization.

Resta da intendere come e se i due cambiamenti siano legati. E soprattutto come il loro modo di trasformare il settore spaziale impatterà sulla Terra. Si parta dal postulato iniziale: dall’evidenza appunto che lo spazio è, da mezzo secolo, strategico.

Iniziata nel pieno della Guerra fredda, la prima space race declinò oltre l’atmosfera la contrapposizione ideologica, oltre che strategico-militare, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.

Come avrebbe scritto Tom Wolfe nel suo La stoffa giusta, “il mito arcaico del duello veniva riproposto nella sua più avanzata versione tecnologica. Non erano più i due migliori combattenti a sfidarsi con clava o spadoni per sancire, con la propria sorte in battaglia, quella dei rispettivi eserciti. Era l’apparato tecnologico e politico a dover dimostrare la capacità di distruggere la patria nemica per difendere la propria”.

Questo fu, in estrema sintesi, il presupposto concettuale che portò, dallo smacco dello Sputnik nel 1957 e dagli innumerevoli primati sovietici – il primo uomo e la prima donna in orbita, la prima attività extra veicolare, il primo volo orbitale di equipaggi multipli –, gli Stati Uniti fin sulla Luna nel 1969. Una corsa vinta con investimenti che, all’apice, hanno riversato nella Nasa quasi il 5% delle spese federali.

A sessant’anni di distanza, la centralità del settore spaziale è aumentata: lo spazio si è rivelato un driver tecnologico e scientifico, più o meno diretto, per ambiti all’apparenza lontani se non slegati. È attraverso lo sviluppo della tecnologia spaziale che vengono offerti servizi innovativi all’agricoltura (il precision farming), al monitoraggio delle infrastrutture, all’osservazione dei cambiamenti climatici e dei loro effetti. È dall’orbita terrestre che si supportano le operazioni di soccorso dopo catastrofi ambientali, o si prevengono gli scenari peggiori. Migliaia di occhi orbitanti controllano le migrazioni e i confini nazionali, contribuiscono alla salvaguardia dei beni culturali e alla gestione del traffico aereo e marittimo. E dall’orbita potrebbe presto arrivare un internet ubiquo (ma non gratuito), ad alta efficienza e senza infrastrutture terrestri. Sarà un traino per lo sviluppo e la cultura senza precedenti, visto che oggi la penetrazione media di internet in Africa subsahariana non arriva al 30%, nelle quattro aree asiatiche (APAC)  non supera il 70% e nemmeno in Nord America o Europa è totale.

Proprio i processi di digitalizzazione, incontrata la tecnologia spaziale, ne stanno ridefinendo modi, potenzialità e ambizioni. È uno dei due pilastri della new space economy: la convergenza fra industria spaziale ed economia digitale. Di quest’ultima, insieme con i capitali, la nuova concezione del “fare spazio” ha assorbito anche la propensione al rischio e l’approccio nello sviluppo dei programmi. Quindi ha cambiato la funzione di cose fino a pochi anni fa senza alcuna relazione con il settore: grazie all’osservazione della Terra, i social network, per esempio, uno dei depositi più massicci di dati in tempo reale, possono contribuire alla gestione delle emergenze, o alla stima degli effetti di un grande fenomeno. Come un terremoto.

Nel 2016, ad Amatrice, i satelliti Copernicus della Commissione Europea e dell’Agenzia spaziale europea, e gli italiani Cosmo-Skymed fornirono subito dopo la catastrofe una valutazione delle zone colpite e dei danni. Le misure ottenute da quei dati, per la prima volta in via sperimentale, vennero rese più precise grazie a una serie di immagini georeferenziate caricate sui social. Già in parte automatico, presto questo processo lo sarà del tutto. E farà la differenza nel decision making, nel management delle emergenze, dei disastri e della ricostruzione.

Vista di Amatrice al 25/08/2016, realizzata con l’aiuto dei satelliti della Commissione Europea e dell’Agenzia spaziale europea

Il risultato è che i settori “a tenuta stagna” non esistono più. La complementarità dei servizi cresce con l’intelligenza delle macchine. Frattanto le tecnologie, di origini diverse, convergono stimolandosi l’una con l’altra. Gli ingegneri la chiamano “integrazione dei domini”: i tre spaziali (telecomunicazione, osservazione e navigazione), i sistemi di terra e quello virtuale, che viaggia in rete e, non essendo da nessuna parte, è dappertutto.

Per questo droni allertati da un’osservazione satellitare presto potranno in modo autonomo verificare la tenuta di un ponte o di un pendio a rischio di frana. Oppure consegnare materiale biomedico più rapidamente del trasporto su ruote, come già testato a ottobre del 2020 dalle italiane Telespazio ed e-Geos fra due siti dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, vicino a Roma.

Sarà dallo spazio che trebbiatrici e trattori robotici decideranno quando arare un campo e come seminarlo, per evitare sprechi e ottimizzare i raccolti, quindi la produzione di cibo. E sempre extraterrestre sarà la mole di dati vitale per l’internet of things, o per i veicoli a guida autonoma del prossimo futuro.

Costi di lancio ($/kg) tra il 1970 e il 2000

Costi di lancio ($/kg) oggi

Nulla di tutto ciò sarebbe tuttavia possibile senza l’altro pilastro dell’approccio contemporaneo al settore spaziale: la sua maggiore accessibilità. La riduzione dei costi di lancio ottenuta grazie alla riutilizzabilità delle cosiddette “tecnologie abilitanti”, come i razzi – si è passati da 18500 dollari al chilogrammo spedito in orbita fino a meno di 3mila –, si combina con la miniaturizzazione della componentistica, spesso sfruttata senza la stringente abilitazione all’utilizzo extra atmosferico. Alla massima affidabilità e alla lunga durata operativa, via via si preferiscono l’economicità e la sostituzione frequente della tecnologia orbitante, spesso costituita da oggetti di dimensione e peso ridotti (per esempio mini o microsatelliti). Servizi di ride sharing – come i già testati Smallsat Rideshare Program di SpaceX o lo Small Spacecraft Mission Service delle italiane Avio e Sab Aerospace – permettono di portare fuori dalla Terra decine di carichi paganti tutti insieme, abbattendo i costi per ogni cliente. Mentre fino a pochi anni fa spedire qualcosa in orbita era una prerogativa di un governo o un colosso industriale, oggi anche una piccola media impresa o un’università possono ambire ad avere un proprio asset oltre il cielo.

Nella foto: Smallsat Rideshare Program di SpaceX

Servizi prima accessibili solo alle istituzioni oggi vengono orientati direttamente alle persone e dal 2009 gli investimenti azionari nelle attività spaziali sono cresciuti esponenzialmente, insieme con il numero di aziende. Innescata da privati come Musk, Jeff Bezos o Richard Branson, solo per citarne i protagonisti più noti, la new space economy apre orizzonti commerciali inediti.

Già nel 2019 il 41% dei top 100 venture capitalist aveva uno o più investimenti nel settore spaziale. Il nuovo eldorado è il cosiddetto downstream, cioè la mole di servizi e applicazioni innovative e a valore aggiunto derivata dalle infrastrutture extraterrestri (l’upstream). Da notare come i pur tanti esempi fatti fino a qui, dall’agricoltura al monitoraggio infrastrutturale, costituiscano solo una frazione di un business dalle potenzialità ancora da immaginare.

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dei top 100 venture capitalist del mondo investe nello spazio

Detto altrimenti, il paradigma spaziale originario, durante la Guerra fredda completamente pubblico, orientato al raggiungimento di obbiettivi strategico-militari e caratterizzato da un’evoluzione tecnologica lenta e guidata dall’alto, è stato stravolto: adesso il settore privato stimola lo sviluppo, il processo di innovazione parte dal basso e l’attività spaziale, “democratizzata”, viene svolta soprattutto a fini di profitto. Soprattutto, però, non significa “solo”.

Nella foto: il CEO e capo progettista di SpaceX Elon Musk, a sinistra, parla con l’astronauta della NASA Bob Behnken

Gli effetti economici della space democratization ridisegnano gli assetti politici globali.

Valore del settore spaziale nel 2017 (miliardi di $)

Valore del settore spaziale nel 2040 (miliardi di $)

Da un lato, la crescente facilità di accedere allo spazio spinge l’incremento vertiginoso del giro di affari. Nel 2017 il valore compressivo del settore era di circa 383 miliardi di dollari, in crescita del 16% rispetto all’anno precedente, sostenuta da una spesa pubblica di 76 miliardi di dollari. Secondo Morgan Stanley (2019) nel 2040 il business spaziale, trainato dall’upstream, crescerà fino a 1100 miliardi di dollari, così come la spesa pubblica che lo sostiene, che secondo la banca di investimenti Merrill Lynch arriverà a 79 miliardi di dollari nel 2026. Sempre secondo Merrill Lynch i trilioni spaziali entro il 2040 potrebbero addirittura essere 2,7 (cioè 2mila e 700 miliardi di dollari).

È un dato impressionante, che per quanto ottimistico sembra confermato dalla comparsa massiccia di nuovi attori spaziali, non necessariamente privati come Musk o Bezos: mentre nel 1960 i Paesi a investire nello spazio erano due, nel 2006 erano 47. Oggi sono una settantina e tra un paio d’anni saranno oltre 80.

Non solo la Federazione Russa ha preso il posto dell’Unione Sovietica; a dettare il ritmo della cavalcata cosmica insieme con gli Stati Uniti, l’Europa, il Canada e il Giappone – partner da oltre vent’anni sulla Stazione spaziale internazionale – oggi ci sono l’Africa, l’India, gli Emirati Arabi Uniti, Israele, la Turchia e lei, già saldamente al secondo posto fra le potenze extra-atmosferiche per investimenti e ambizioni: la Cina. Le ambizioni spaziali di una nuova platea di governi toccano pesantemente gli equilibri globali. Se lo spazio ha mutato i propri paradigmi economici, è infatti rimasta invariata la sua natura duale, cioè sfruttabile sia in ambito civile che militare.​

Anche per questo da mezzo secolo il settore è strategico. Ed è significativo che nel clima di incertezza circa le nuove strategie spaziali degli Stati Uniti, Joe Biden lo scorso febbraio abbia confermato il “pieno supporto” alla Space Force, la forza armata deputata alla gestione delle attività di difesa oltre l’atmosfera istituita da Donald Trump nel dicembre del 2019.

È la conferma del fatto che gli Stati Uniti considerino quello extraterrestre “un nuovo dominio operativo”, come lo indica la Nato, un ambito da presidiare come la terra, il mare, il cielo e il cyber, e all’interno del quale le operazioni militari rischiano di intensificarsi nei prossimi anni. Il timore degli Stati Uniti è rappresentato principalmente da Russia e Cina, accusate di aver “armato lo spazio”. È scritto senza tanti giri di parole nel Defense Space  Strategy Summary della Difesa americana, dove più volte si fa riferimento a una possibile “guerra spaziale” da vincere anticipando i rivali dal punto di vista dello sviluppo tecnologico.

Accanto alle enormi potenzialità economiche di un suo sfruttamento commerciale, lo spazio è oggi teatro di un nuovo processo di militarizzazione: la space weaponization.

Inaugurato dalla Cia alla fine degli anni 50, con i primi satelliti della serie Corona, e con un picco nelle attività di intelligence, sorveglianza e supporto alle truppe durante la prima guerra in Iraq, l’uso delle orbite extraterrestri a scopo militare aveva subito una pausa agli inizi del Duemila, quando l’attenzione degli Stati Uniti si era rivolta al contrasto del terrorismo.

Solo nel 2019 ha ripreso vigore, con la dichiarazione del presidente Trump di voler realizzare una forza indipendente dall’aviazione in risposta ai lanci, russi e cinesi, di missili antisatellite (Asat).

Poco auspicabili, le reazioni sono state però istantanee: alle nuove forze statunitensi e francesi, Mosca ha contrapposto la volontà di intensificare le proprie attività extraterrestri di difesa.

Pur dichiarandosi contrario alla space weaponization, Vladimir Putin si è infatti detto costretto a prestare maggiore attenzione al rafforzamento “dell’industria missilistica e spaziale nel suo insieme”, che già nel 2015 aveva comunque registrato la nascita di una forza militare. Pechino ha risposto istituendo un corpo spaziale all’interno dell’Esercito popolare. E che accanto alla Russia sia la Cina a preoccupare maggiormente l’occidente è la testimonianza dell’acquisito peso del Dragone anche oltre i confini del Pianeta.

Come scrive Marc Julienne in China’s Ambitions in Space: The Sky’s the Limit (Ifri 2021), “la Repubblica popolare cinese (Rpc) è nel 2021 una potenza spaziale completa con accesso autonomo allo spazio esterno e all’esplorazione dello spazio profondo […] La dottrina spaziale cinese si basa su tre pilastri: sviluppo nazionale, potenziamento militare e competizione tra grandi potenze. I primi due hanno guidato lo sviluppo della Cina nello spazio dall’inizio del programma, mentre l’ultimo è una caratteristica che si è particolarmente intensificata negli ultimi decenni.

Sotto il presidente Xi Jinping, lo spazio è completamente integrato nel ‘sogno del grande ringiovanimento della nazione’; deve contribuire a fare della Repubblica popolare la ‘grande potenza tecnologica’ numero uno entro il 2049”, data del centenario della Rpc.

​Per comprendere come il gigante asiatico si stia muovendo per realizzare i propri obbiettivi extraterrestri conviene però tornare indietro di qualche anno.

È il 9 giugno 1995 e a New York è un venerdì caldo non solo per la temperatura. La visita del presidente taiwanese, Lee Teng-hui, alla Cornell University, sua alma mater, scatena la terza crisi con la Repubblica popolare: Pechino accusa Lee di stare muovendosi per ottenere l’indipendenza formale, quindi, poco prima delle elezioni sull’isola, decide di ricordare a tutti che un’invasione non è un’eventualità remota. Nel marzo del ’96 l’Esercito popolare di liberazione imbandisce un’esercitazione militare in grande stile, o almeno così vorrebbe, e lancia tre missili verso Taiwan: il primo cade a più di 18 chilometri dalla base di Keelung, a nord di Taipei, e degli altri due, poco dopo il decollo, perdono le tracce tutti, compresi coloro che dovrebbero controllarne la traiettoria.

Secondo fonti anonime negli alti ranghi dell’esercito cinese, la colpa sarebbe degli Stati Uniti, rei di aver provocato un malfunzionamento del sistema Gps – il “Global Positioning System”, di proprietà americana – installato sui missili balistici. Sia come sia, per Pechino è una “umiliazione indimenticabile”, la prova di limiti tecnologici giganteschi e, per conseguenza, un monito a ridimensionare le proprie ambizioni geopolitiche.

Flashforward: 23 giugno 2020. La Cina spedisce in orbita il 30esimo e ultimo satellite del sistema di radionavigazione “Beidou”, completando la costellazione. Abbinata con la rete 5G e con l’intelligenza artificiale, l’infrastruttura consentirà di potenziare le attività economiche e militari in patria e all’estero senza più dipendere dal Gps. È il compimento del progetto accelerato dalla “umiliazione indimenticabile” del ’96 ed è probabile che l’impiego dei satelliti costruiti dalla Cina lungo la nuova via della seta, la Belt and Road Initiative, potrebbe anche rappresentare un importante strumento di controllo e influenza all’estero. Diventare un polo attrattivo per le potenze spaziali emergenti è infatti uno degli obbiettivi di Pechino, soprattutto da quando, per volontà degli Stati Uniti, la Cina è stata esclusa da programmi di collaborazione come quello della Stazione spaziale internazionale.

È una riscossa che la Repubblica Popolare prepara da più di mezzo secolo, da quando Qian Xuesen, uno scienziato cacciato dall’America per sospetto comunismo, nel 1956 allestì e diresse in patria il primo programma di sviluppo di missili balistici. Il primo razzo interamente sviluppato in patria, il vettore CZ-2, nacque nel 1964 e nel ‘70 portò in orbita il “Dong Fang Hong 1”, il primo dei 55 satelliti della stessa famiglia lanciati nei trent’anni successivi. Inaugurato dal solito Qian Xuesen nel ‘68, il Centro di ricerca di medicina spaziale contribuì invece a realizzare l’idea per cui era nato, quella di lanciare un taikonauta (un astronauta cinese) nello spazio, risultato raggiunto nel 2003 con la missione “Shenzhou 5”. La Cina divenne il terzo paese, dopo Urss e Usa, a inviare in autonomia un uomo oltre l’atmosfera.

Complici “umiliazioni indimenticabili”, quattro siti di lancio sul proprio territorio e investimenti crescenti – a oggi, dei 177 miliardi di dollari stanziati ogni anno per la Difesa, non è dato conoscere la porzione investita nello spazio, ma già fra il 2013 e il 2018 la cifra potrebbe essere cresciuta dai 6 agli 11 miliardi, budget secondo solo a quello americano –, il ritardo del programma spaziale cinese è stato via via ridotto e, in alcuni casi, addirittura annullato: nel gennaio 2019, l’Agenzia spaziale cinese, la Cnsa, è stata la prima della storia a manovrare un rover, lo “Yutu 2”, sulla superficie nascosta della Luna, un obbiettivo che impone infrastrutture a terra dal decisivo peso strategico, come un radiotelescopio posizionato in Argentina.

Per capire quanto lo spazio sia importante per il Paese del Dragone basti pensare che le Accademie dedicate al settore impiegano circa 100mila persone. In Europa non arriviamo a 40mila.

Oggi, nel 2021, la Cina ha una missione robotica, “Tianwen-1”, pronta a toccare la superficie di Marte il prossimo 23 aprile, un programma lunare che punta a sbarcare i primi pellegrini entro il 2030, e una stazione spaziale modulare in orbita bassa sulla rampa di lancio che partirà entro fine anno.

Come sottolinea ancora Julienne, però, la governance spaziale del gigante asiatico “non è come appare. L’agenzia spaziale cinese, la China National Space Administration, è infatti una vetrina per la cooperazione internazionale. Il vero processo decisionale risiede nella State Administration for Science, Technology and Industry for National Defense (Sastind), all’interno dell’Esercito popolare di liberazione (Pla) e in particolare nella Strategic Support Force. Altri attori sono determinanti, come i conglomerati aerospaziali di proprietà statale (China Aerospace Science and Technology Corporation e China Aerospace Science and Industry Corporation), così come l’Accademia cinese delle scienze e il mondo accademico”.

In sostanza, sebbene l’effervescenza imprenditoriale dell’industria spaziale made in China permetta di parlare di new space economy e nonostante il governo, come negli Stati Uniti, stia stimolando nuovi canali di finanziamento, “la liberalizzazione del settore è piuttosto limitata e gli attori privati competono a malapena con i giganteschi conglomerati statali […] Che siano lo Stato, i militari, le imprese partecipate (Soe), o anche il settore privato, il Partito Comunista […] mantiene un rigoroso controllo sulle attività aerospaziali”.

È questa centralizzazione ad amplificare le preoccupazioni in occidente. Ed è difficile prevedere come le pur numerose iniziative di collaborazione internazionale di Pechino, per esempio con il Comitato delle Nazioni Unite per l’uso pacifico dello spazio extra atmosferico (il COPUOS), possano evolversi.

“Gli effetti economici della space democratization ridisegnano gli assetti politici globali.”

Rimane infatti un ultimo tassello per comprendere come le ambizioni extraterrestri compongano gli equilibri politici sul nostro Pianeta: la regolamentazione oltre l’atmosfera.

Diritti e doveri spaziali sono disciplinati dall’Outer Space Treaty delle Nazioni Unite del 1967, il cui principale obbiettivo, dopo i test effettuati da Stati Uniti e Unione Sovietica, era impedire l’uso di armi nucleari oltre l’atmosfera.

Firma dell’Outer Space Treaty (1967)

Il Trattato regolava l’attività extraterrestre per tutti e stabiliva anche l’impossibilità di rivendicare diritti di proprietà su risorse extra-planetarie. Oggi, però, un quadro giuridico che regolamenti gli sviluppi del settore è ancora in via di definizione e non sembra che l’intenzione di redigerne uno adatto a un quadro totalmente mutato sia condivisa: Pechino e Mosca, con molti paesi che sostengono le Nazioni Unite, vanno proponendo risoluzioni come la No first placement (NFP) of weapons in outer space o la Further practical measures for the prevention of an arms race in outer space, facendo pressioni affinché Washington le sottoscriva. Gli Stati Uniti, però, come nel caso della seconda risoluzione proposta, si sono opposti insieme con diversi alleati (Francia, Israele, Regno Unito e Ucraina). Mentre una parte è accusata di voler mantenere l’egemonia strategica minacciando altre potenze, all’altra si imputa il tentativo di ostacolare il vantaggio tecnologico americano per recuperare il ritardo e, nel frattempo, sviluppare arsenali terrestri.

È proprio l’Europa a poter assumere un ruolo da protagonista nell’armonizzazione degli interessi internazionali.

Nella difficile composizione del quadro geopolitico non è un caso queste righe abbiano fino a qui ignorato l’Europa.

Il Vecchio Continente vive una fase delicata della sua presenza nello spazio: l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha da poco nominato il nuovo direttore generale, l’austriaco Josef Aschbacher, anticipandone “l’entrata in servizio” da luglio 2021, come inizialmente previsto, allo scorso marzo: è il segno di un’urgenza significativa, che peraltro lascia vacante la direzione del centro Esrin di Frascati, ruolo in precedenza ricoperto da Aschbacher e cruciale nella gestione delle attività di Osservazione della Terra, forti del maggior investimento dell’ente (la ricerca del nuovo direttore si concluderà il prossimo 30 aprile ed è innegabile che l’Italia, la cui rappresentatività nei ruoli apicali è carente, debba puntare ad avere un proprio rappresentante). Non meno importante è che al più recente Consiglio Ministeriale dei 22 Paesi membri, nel novembre 2019 a Siviglia, il budget dell’agenzia abbia ottenuto il più alto finanziamento di sempre, attestandosi sui 14,4 miliardi di euro per il periodo 2020-2025.

SUDDIVISIONE DI BILANCIO PREVISTO DALL’ESA

(milioni di euro)

SICUREZZA SPAZIALE

APPLICAZIONI PER LA SICUREZZA

OSSERVAZIONE DELLA TERRA

tlc

NAVIGAZIONE SATELLITARE

Insieme con la sottoscrizione europea, nell’ottobre del 2020, del Memorandum of Understanding con gli Stati Uniti nell’ambito degli Artemis Accords, che disciplinano la nuova avventura lunare americana, il più ricco budget di sempre e l’entrata in carica anticipata del nuovo direttore generale sono “mosse” che testimoniano la necessità europea di recuperare una centralità via via perduta, come testimoniano il recente grido d’allarme per il settore dei lanciatori di Stéphan Israël, ceo di Arianespace, oppure il rinvio di ExoMars 2020, la missione verso Marte prevista per l’anno scorso e rinviata nel 2022.

In questo contesto, mentre Biden ha confermato la volontà di tenere fede agli impegni lunari degli Stati Uniti – che coinvolgono l’Europa anche nella realizzazione della futura base in orbita cislunare, il Lunar-Gateway, e che vedono nel nuovo amministratore della Nasa, Bill Nelson, un supporter convinto –, Cina e Russia hanno ufficializzato la volontà di realizzare una base lunare congiunta.

È proprio l’Europa a poter assumere un ruolo da protagonista nell’armonizzazione degli interessi internazionali. Inferiore per ambizioni e investimenti alle superpotenze spaziali, il Vecchio Continente rimane un partner ambito per ragioni scientifiche e politiche, fatto corroborato dall’eccellenza di tante industrie spaziali nazionali, italiana in testa – e non è un caso, per esempio, che proprio all’Italia si rivolgano sia gli Stati Uniti che la Cina per la realizzazione dei futuri avamposti abitabili.

In quanto potenza normativa, l’Europa dovrà avere la capacità di sfruttare il suo ruolo al meglio, promuovendo un ordine basato su regole condivise, come, per esempio, l’International Code of Conduct for Outer Space Activities.

Perché se non si dovesse trovare un accordo internazionale, quella notte di settembre del 2017 acquisirebbe una luce ancora più minacciosa per tutti. A quel punto non solo sarebbe probabile che la privatizzazione del settore, e con lei i benefici collettivi, rallentino. Sarebbe anche verosimile che via via si accentui un controllo militare oltre l’atmosfera.

In quel momento in tanti diventeremmo testimoni di una competizione di cui, a oggi, solo quell’uomo su una piattaforma in mezzo al mare è stato testimone oculare. Una gara per il nostro futuro, ma giocata su un campo di battaglia.

Emilio Cozzi

Emilio Cozzi

Giornalista e autore. Scrive regolarmente per Wired Italia, Forbes Italia, Il Corriere della sera e Il Sole 24 Ore, testate per cui si occupa di cultura digitale, critica videoludica, e-sport e divulgazione aerospaziale.

Sull’autore

Emilio Cozzi è giornalista e autore. Dal 2007 al 2016 è stato vicedirettore di Zero, il più importante free press magazine di intrattenimento culturale in Italia. Scrive regolarmente per Wired Italia, Il Corriere della sera e Il Sole 24 Ore, testate per cui si occupa di spazio, tecnologia e cultura videoludica.

Dal 2019 dirige la sezione space economy di Forbes Italia e di Cosmo, rivista specializzata in divulgazione scientifica di carattere astronomico e astronautico. È autore e conduttore di Forbes Space Economy, programma settimanale trasmesso da Sky 511 e Tivùsat 61.

I suoi libri più recenti sono Il ritiro sociale negli adolescenti (2019, Raffaello Cortina Editore), Io sono Pow3r (2020, Salani Editore), L’esplorazione dello spazio (2021, Le scienze/La Repubblica) e Spazio al Futuro (2021, Bfc Books-Telespazio/Leonardo).

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
Redazione: Guido Alberto Casanova, Sara Ceradini (grafica), Sara Cerutti (grafica), Francesco Fadani (grafica), Giorgio Fruscione, Gemma Ghiglia, Alessandro Gili, Nicola Missaglia, Diana Orefice, Luca Puzzangara (video), Alberto Rizzi, Maria Laura Serpico