Il Futuro degli Oceani

La nuova corsa agli abissi

Il futuro degli Oceani

La nuova corsa agli abissi

“È una questione lontana dagli occhi dei più, ma che rischia di intaccare la vita di tutti noi. Si tratta dell’assalto alle risorse sottomarine – soprattutto quelle di minerali, metalli, gas e petrolio – a lungo ritenute remote e inaccessibili, ma che ora nuove tecnologie rendono fruibili.”

È il gennaio del 1960 quando, per la prima volta nella storia, l’oceanografo svizzero Jacques Piccard e lo statunitense Don Walsh scendono negli abissi per raggiungerne il punto più profondo: la Fossa delle Marianne, a 10.916 metri di profondità nell’Oceano Pacifico.
Sono a bordo del batiscafo Trieste, costruito da Piccard e dal padre Auguste attraverso finanziamenti italiani, e poi acquistato dalla Marina statunitense allo scopo di trovare zone senza vita nelle profondità marine per depositarvi scorie nucleari.
Piera Tortora

Piera Tortora

Coordinatrice dell’iniziativa Sustainable Ocean for All dell’OCSE.
Presentazione di Betrand Piccard all’inaugurazione della iniziativa OCSE ‘Un oceano sostenibile per tutti. Credits: © Hervé Cortinat / OECD
Quando nel gennaio 2019 è stato invitato all’inaugurazione della iniziativa OCSE ‘Un oceano sostenibile per tutti’, il figlio di Jacques Piccard, Bertrand, anche lui esploratore ed artefice nel 2016 della prima circumnavigazione della terra a bordo di un velivolo alimentato esclusivamente da energia solare, si è soffermato a ricordare l’esplorazione del padre nella Fossa delle Marianne.
Fu una spedizione fondamentale: non solo per il record di immersione che venne stabilito, ma perché aveva dimostrato che anche nelle più remote e abissali profondità del mare c’è vita. Il progetto di depositarvi scorie radioattive fu così sventato.

Nella foto: Il Bathyscaphe Trieste, un veicolo sommergibile di ricerca per immersioni profonde di costruzione italiana, che con il suo equipaggio di due persone ha raggiunto una profondità massima record di circa 10.911 metri (35.797 piedi), nella prima discesa della parte più profonda conosciuta degli oceani della Terra, il Challenger Deep, nella Fossa delle Marianne vicino a Guam nel Pacifico, il 23 gennaio 1960. Viene issato fuori dall’acqua in un porto tropicale, intorno al 1958-59, subito dopo il suo acquisto da parte della Marina degli Stati Uniti.

Eppure, lo stretto legame fra evidenza scientifica e conseguenze politiche che questo episodio di oltre sessant’anni fa rappresenta plasticamente è oggi meno evidente.

The blue accelleration: andamento delle attività legate allo sfruttamento delle risorse oceaniche (1970-2020).

Da sempre legato al fiorire di molte civiltà, attraverso ad esempio traffici commerciali e pesca, oggi il mare è al centro di un numero crescente di attività economiche.

Un recente studio, The Blue Acceleration, documenta l’impennata senza precedenti dello sviluppo di attività economiche nell’oceano, che evidenzia in maniera netta una traiettoria esponenziale dei nuovi e tradizionali usi commerciali che lo riguardano.

Mentre alcuni ultraricchi sembrano prepararsi alla fuga su altri pianeti, per chi rimane sulla Terra, l’oceano, che ricopre i due terzi della superficie terrestre e possiede ancora vaste risorse inutilizzate, rappresenta una delle frontiere più promettenti per soddisfare la crescente domanda di cibo, materie prime e persino di spazio.

L’OCSE stima che il più grande settore dell’economia dell’oceano sia l’industria del petrolio e del gas off-shore: produce un terzo del valore aggiunto generato da tutte le attività economiche che avvengono nell’oceano.

Circa il 70% dei maggiori depositi di idrocarburi scoperti fra il 2000 e il 2010 si trova sotto il mare, e con il progressivo esaurimento di giacimenti nelle acque meno profonde (inferiori a 400 metri), la produzione si sta spostando a maggiori profondità.

Inoltre, i fondali marini conterrebbero vasti giacimenti di gas naturali.

Fonte: GEBCO 2020 seafloor dataset.

Molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in America Latina, dipendono pesantemente dall’industria degli idrocarburi. In Angola la sola produzione off-shore di petrolio contribuisce direttamente e indirettamente a circa il 50% del PIL del paese e all’89% delle esportazioni, mentre in Nigeria il settore del petrolio e quello del gas producono il 70% delle entrate del governo: metà di queste sono legate all’off-shore. Gli ultimi anni hanno visto un boom di esplorazioni off-shore, con un numero crescente di progetti sia in Africa sia nel sudest asiatico. È senza precedenti il numero di paesi africani – fra cui Mozambico, Ghana, Senegal, Mauritania, Somalia e Sudafrica – che stanno rilasciando concessioni per nuove esplorazioni off-shore. Un impeto particolare deriva dalle scoperte al largo delle coste atlantiche avvenute a partire dal 2015, che interessano Senegal, Mauritania, Gambia, Guinea e Guinea Bissau. Nel sudest asiatico, invece, il settore è in espansione soprattutto in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam, con il 60% della produzione regionale proveniente da pozzi petroliferi off shore.
Mentre è nei paesi in via di sviluppo che si concentrano le nuove esplorazioni off-shore, un nuovo studio guidato dalla Duke University mostra che la maggior parte delle aziende multinazionali off-shore che fattura di più nell’economia dell’oceano ha sede legale in paesi ad alto reddito.

Lo studio mostra inoltre la grande concentrazione di questo fatturato viene prodotto sfruttando l’oceano: 100 aziende multinazionali si dividono il 60% del fatturato globale dell’economia dell’oceano, per un totale di 1100 miliardi di dollari nel 2018. Il 64% di questi fatturati viene realizzato da compagnie del settore petrolifero e del gas off-shore.

%

fatturato globale dell'economia marina in mano a 100 multinazionali

miliardi di dollari

Valore dell’industria dell’oceano per settore
Fonte: International Monetary Fund, World Wildife Fund, Ocean Panel Organisation

Nella foto: piattaforme per estrazione di gas e petrolio nel mare della Norvegia.

Ma l’industria del petrolio e del gas off-shore non è solo fonte di giganteschi guadagni. Al contrario, nonostante si stimi una crescita di 2,79 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2024, soprattutto per via di progetti da parte di compagnie europee, il settore è stato duramente colpito dalla pandemia e affronta incertezze crescenti. Nella primavera del 2020, l’impatto economico della crisi sanitaria ha fatto crollare la domanda, mentre la produzione, già sovrabbondante, continuava ad aumentare. Inoltre, l’andamento degli investimenti nel settore risentirà delle oscillazioni dei consumi e del prezzo del petrolio, come del moltiplicarsi di piani di transizione energetica per raggiungere emissioni nette zero di CO2.
Un altro settore che sta vivendo un nuovo boom è quello del cablaggio sottomarino, la cui crescita si era smorzata dopo che le compagnie dot-com avevano finanziato, negli anni ’90, l’istallazione sottomarina di grandi impianti di fibra ottica da decine di miliardi di dollari. A guidare questa rinascita sono compagnie come Facebook e Google, responsabili dell’80% dei nuovi investimenti, che promettono di migliorare la trasmissione dati a livello globale puntando sopratutto all’Africa.
Tuttavia, è l’estrazione di minerali dai fondali profondi il capitolo forse più controverso della corsa alle risorse sottomarine. Attualmente l’estrazione mineraria avviene in prossimità delle coste e interessa principalmente sabbia e altri materiali utili nel settore delle costruzioni. Ma la crescita dell’industria high-tech e l’esigenza di un futuro a basse emissioni hanno portato alla ribalta l’interesse commerciale per minerali che si trovano fra gli 800 e i 6500 metri sotto il livello del mare. L’impegno a raggiungere zero emissioni di anidride carbonica nette da parte dei paesi che attualmente costituiscono il 70% del PIL globale aumenta infatti la domanda di energia ‘pulita’. Ma per essere prodotta, come sottolinea un recente rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, essa richiede elevata intensità di minerali: litio, nickel, cobalto, manganese e grafite per la produzione di batterie, minerali rari per le turbine elettriche e i motori delle vetture elettriche, rame e argento per i pannelli solari, etc.

Tipologie e caratteristiche minerarie dei fondali oceanici
Fonte: oceanpanel.org

Riconoscendo come fondamentale per l’economia europea l’accesso alle materie prime che sottostanno a queste e altre tecnologie moderne, la Commissione Europea ha stilato una lista di ‘materie prime critiche’ (critical raw materials – CRMs), delle quali cerca di assicurare uno stabile approvvigionamento. In maniera simile, gli Stati Uniti hanno adottato nel 2017 una strategia federale per assicurarsi l’accesso a 35 minerali identificati come critici per l’economia statunitense.
Dopo numerosi test tecnici, le operazioni cessarono nel corso degli anni ’80 perché i prezzi dei metalli erano troppo bassi per renderle vantaggiose. Ora invece l’estrazione di minerali nel sottosuolo marino è divenuta sia economicamente profittevole sia tecnicamente possibile. Si tratta per lo più di cobalto, zinco, manganese, titanio, ferro e oro: giacimenti di minerali il cui valore è stimato in miliardi di miliardi di dollari.
Lo sfruttamento commerciale dei minerali presenti nei fondali marini profondi, rinvenuti durante la prima spedizione scientifica sottomarina avvenuta fra il 1872 e il 1876, è stato preso in considerazione fin dagli anni ’60 del Novecento, quando Belgio, Canada, Italia, Francia, Germania, Giappone, Paesi Bassi e Stati Uniti fondarono un consorzio per stimare le riserve sottomarine e sviluppare tecnologie che permettessero di estrarre le pepite di minerali.

Challenge expedition
Fonte: zamboanga.com

Si accumulano nei fondali come pepite scure, escono come fumi grigiastri da ‘caminetti’ naturali subacquei, o si depositano su croste sottomarine.

Si accumulano nei fondali come pepite scure, escono come fumi grigiastri da ‘caminetti’ naturali subacquei, o si depositano su croste sottomarine.

Rispetto ai giacimenti terrestri, la loro estrazione – difficile a credersi – sarebbe tecnicamente più facile, perché non richiederebbe la costruzione di infrastrutture come strade, sistemi di smaltimento e discariche.
Diversamente dai depositi terrestri, quelli sottomarini permetterebbero poi di estrarre allo stesso tempo molteplici minerali dal valore commerciale di migliore qualità (vale a dire a più alto contenuto di minerali) rispetto a quelli rimasti sulla superficie terrestre. I giacimenti sottomarini sono poi anche molto più vasti. Ad esempio, la sola zona Clarion-Clipperton, al largo dell’Oceano Pacifico, conterrebbe una quantità di manganese, nickel, cobalto, titanio e ittrio superiore all’intera riserva terrestre. Le riserve sottomarine di cobalto, per esempio, sarebbero fino a 5 volte superiori rispetto a quelle di tutte le riserve terrestri.  La quantità di titanio contenuta nella zona Clarion-Clipperton, poi, sembra essere 6000 volte più grande di tutte le riserve terrestri messe insieme.

Crescita in milioni di dollari dell'industria del petrolio e del gas off-shore, 2020-2024

Uno studio suggerisce che l’estrazione di metà dei giacimenti di questa zona fornirebbe il manganese, il nickel, il cobalto e il ferro necessari a elettrificare un miliardo di vetture, e che rilascerebbe nell’atmosfera un terzo dei gas serra che verrebbero invece emessi attraverso l’estrazione terrestre.
L’appetibilità dei giacimenti sottomarini ha però anche una dimensione geopolitica. Il cobalto, ad esempio, fondamentale per costruire le batterie delle vetture elettriche, è estratto quasi esclusivamente nella Repubblica Democratica del Congo. Guerre, violenza, crimini e sfruttamento minorile sono da decenni inestricabilmente legati al commercio delle materie prime del paese, che tuttavia rimane uno dei più poveri al mondo. La produzione di cobalto raffinato, poi, è estremamente concentrata: la Cina si attesta come principale produttore detenendo l’80% del mercato. I promotori dell’estrazione dai fondali marini la presentano come una fonte di approvvigionamento molto più stabile, pulita ed etica, oltre che necessaria alla transizione verso le energie rinnovabili.
Ma il quadro non è così semplice. La necessità di ridurre le emissioni e rimanere entro un aumento delle temperature medie globali di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali è indiscutibile: un passaggio obbligato per mantenere il pianeta abitabile per noi umani. Tuttavia, molti dubbi vengono sollevati rispetto al basare la transizione alle rinnovabili su risorse non rinnovabili, come anche sull’entità dei danni ambientali che verrebbero inferti a ecosistemi già sotto enormi pressioni per via del cambiamento climatico, l’ipertrofia dell’industria ittica mondiale, e altri fattori di stress ambientale. Lo sfruttamento industriale di alcune di queste risorse potrebbe provocare danni irreversibili agli ecosistemi sottomarini, dai quali dipendiamo per la produzione del 50% dell’ossigeno che respiriamo, nonché per regolare il clima, e per la catena alimentare. E mentre i danni potrebbero riguardarci tutti, i benefici lucrativi potrebbero concentrarsi nelle mani di pochi governi e poche compagnie multinazionali.

Lo sfruttamento industriale di queste risorse potrebbe provocare danni irreversibili agli ecosistemi sottomarini, dai quali dipendiamo per la produzione del 50% dell’ossigeno, nonché per regolare il clima, e per la catena alimentare.

Lo sfruttamento industriale di queste risorse potrebbe provocare danni irreversibili agli ecosistemi sottomarini, dai quali dipendiamo per la produzione del 50% dell’ossigeno, nonché per regolare il clima, e per la catena alimentare.

Nella foto: Una razza nuota su un fondale di coralli morti a Lizard Island, 2016. Credits: The Ocean Agency / XL Catlin Seaview Survey / Richard Vevers

E mentre i danni potrebbero riguardarci tutti, i benefici lucrativi potrebbero concentrarsi nelle mani di pochi governi e poche compagnie multinazionali.
Ci vogliono milioni di anni perché si formino pochi millimetri dei minerali di cui stiamo parlando. Una pepita di minerali rari della grandezza di una pallina da tennis potrebbe aver impiegato 14 milioni di anni a formarsi. Su scala umana, è quindi ragionevole dire che queste risorse minerarie non verranno mai rimpiazzate. E che, mentre il loro uso soddisfarrebbe il consumo delle generazioni presenti, lascerebbe alle generazioni future un salatissimo conto da pagare.
Gli ecosistemi in cui questi minerali si trovano potrebbero impiegare centinaia di anni a ristabilirsi dopo il passaggio degli attuali macchinari estrattivi, che sono una specie di gigantesche aspirapolveri del peso di centinaia di tonnellate, che risucchierebbero non solo i minerali, ma qualsiasi forma di vita si trovi sul loro cammino, per poi sputare detriti e scarti.

Nella foto: un nodulo di manganese estratto da un fondale, habitat di varie forme di vita marine

La ricercatrice ed esploratrice marina Megan Cook ricorda che negli anni Settanta furono effettuati dei test per simulare gli effetti delle operazioni estrattive sottomarine. Esplorazioni recenti mostrano che, quarant’anni più tardi, i processi geo-chimici e la diversità delle specie osservati prima dei test non sono ancora stati ripristinati. Molti studi indicano inoltre che gli effetti ecologici si estenderebbero ben al di là dell’area direttamente interessata dall’estrazione, ad esempio colpendo specie migratorie. C’è evidenza empirica del fatto che effetti avuti nelle acque profonde si propaghino e si ripercuotano anche negli ecosistemi più vicini alla costa.

Un elemento cruciale è che gli habitat e le forme di vita che abitano le profondità del mare rimangono largamente sconosciuti. Quindi cercare di sviluppare tecniche che riescano a mitigare gli impatti su di esse risulta particolarmente difficile.  CookLe esplorazioni sottomarine degli ultimi decenni hanno però permesso di scoprire che nelle profondità dell’oceano vivono specie di migliaia di anni (le spugne marine, ad esempio, sono grandi più o meno come un’automobile e vivono in media 2000 anni), e che possono aiutare a comprendere le origini della vita su questo pianeta, nonché microbi e organismi che possono aiutare a curare il cancro e alcune malattie infettive. Le applicazioni mediche di alghe e microrganismi marini si stanno infatti moltiplicando. Negli ultimi trent’anni, decine di migliaia di estratti e principi attivi con molteplici benefici medici, sono stati ottenuti da specie marine, incluso, più recentemente, un potenziale inibitore per il virus del COVID.
Recenti esplorazioni continuano poi a trovare nuove sconosciute forme di vita negli abissi. Ad esempio, uno studio sulle forme di vita presenti nella zona Clarion-Clipperton ha rivelato una straordinaria ricchezza di forme di vita. Nell’area di un campo estrattivo sono state rinvenute 12 specie animali, 7 delle quali erano prima sconosciute alla scienza.

Aree oceaniche con la maggiore concentrazione di plastica
Fonte: Microplastic Pollution Map, One Earth-One Ocean (2021)

Lo scorso anno, un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Marine Science ha concluso che la natura vulnerabile degli ecosistemi nelle profondità marine, la scarsità di tecnologie per minimizzare i danni, e le enormi lacune nella conoscenza di questi ecosistemi fanno sì che l’industria dell’estrazione sottomarina non possa garantire la preservazione della vita lì dove andrebbe a operare.
Le attività di estrazione commerciale non sono state ancora avviate, ma ammonta a 900,000 km2 l’area in cui sono stati concessi contratti di esplorazione all’interno di giurisdizioni nazionali. Al di fuori delle giurisdizioni nazionali le attività di estrazione nei fondali marini profondi sono regolate dall’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (International Seabed Authority, ISA), che fino a ora ha accordato 31 concessioni per esplorazioni in un’area superiore ai 1,3 milioni di chilometri: oltre quattro volte l’Italia. Ma, come nota il Direttore del Programma sulle Politiche per l’Oceano della Duke University, John Virdin, l’Autorità si trova in una posizione difficile e ambigua, dovuta da un lato alla responsabilità di garantire la preservazione degli ecosistemi marini e dall’altra  alle pressioni di governi e compagnie private per la concessione di contratti. Il Segretario Generale dell’Autorità, in una recente riunione con il Segretario Generale dell’OCSE, ha sottolineato che i paesi OCSE sono in testa quando si tratta di nuove tecnologie per l’estrazione di minerali nei fondali profondi, e che molti paesi europei dichiarano il bisogno di ‘colmare il deficit nella produzione di minerali’. Uno studio però rivela che anche lo scenario più ambizioso, quello di energie al 100% rinnovabili entro il 2050, si potrebbe realizzare con l’attuale attività estrattiva terrestre e attraverso miglioramenti nella capacità di riciclare i materiali.
Attualmente la Cina è l’unico paese ad aver ottenuto dall’ISA concessioni per esplorare l’estrazione mineraria sottomarina in tutti e tre gli ecosistemi (nelle croste di ferromanganese ricche di cobalto, nelle aree ricche di solfiti polimetallici, e in quelle ricche di pepite polimetalliche). C’è poi il rischio che si venga a creare una polarizzazione fra i paesi che hanno contratti esplorativi concessi dall’ISA (come Cina, India, Giappone, Russia, Corea del Sud e vari paesi Europei) e i paesi che hanno depositi minerari nei fondali marini profondi (come Papua Nuova Guinea, Tonga, le Isole Cook, Namibia, Giappone e Kiribati).
Nella corsa alle risorse sottomarine, particolarmente delicata è la posizione dei piccoli stati insulari. Troppo piccoli e remoti per riuscire a sviluppare un mercato interno, accedere a quelli esteri, e diversificare la propria economia, essi sono in larga parte dipendenti dal resto del mondo per gli aiuti allo sviluppo, le rimesse e il turismo. Nuovi mercati legati all’uso sostenibile delle loro vastissime risorse marine (le loro acque nazionali sono in media 2000 volte più grandi del loro territorio) potrebbero aprire nuove opportunità di sviluppo sostenibile. Ma negli ultimi anni, soprattutto nell’Oceano Pacifico, si sta imponendo sempre più una narrativa che dipinge l’estrazione mineraria sottomarina come un’opportunità di crescita economica imperdibile per questi piccoli stati, necessaria tra l’altro a coprire i costi crescenti dell’adattamento al cambiamento climatico, che con l’innalzamento del livello degli oceani minaccia di trasformare e persino far scomparire molte di queste isole. Anche se le Figi hanno firmato una moratoria, nel resto del Pacifico si parla già di quando e come avverranno le operazioni estrattive, e non se queste avverranno.
Il nodo principale è lo stesso: lo sfruttamento di risorse minerarie sottomarine potrebbe produrre entrate nel breve periodo per stati e compagnie, ma i benefici economici rischiano di rimanere concentrati e difficili da riconciliare con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Gli impatti ecologici negativi, invece, rischiano di essere colossali e di estendersi ben oltre i confini di questi paesi, con danni alle funzioni vitali che l’oceano svolge a livello globale.
Per le piccole isole la scelta non è solo fra vantaggi economici e vantaggi ambientali. La dipendenza di un paese da risorse estrattive, se non gestita adeguatamente, potrebbe andare a scapito di altre attività economiche come turismo e pesca, dando luogo al paradosso della cosiddetta “sindrome olandese”. Alcuni piccoli stati-isola sono già stati dipendenti dal settore minerario terrestre. È il caso di Nauru, una nazione di appena 21 chilometri quadrati, dove i giacimenti di fosfati sono stati sfruttati da varie compagnie coloniali fin dal 1906, per poi lasciare il paese in uno stato di profondo degrado economico e ambientale fino a quando gli stessi giacimenti non si esaurirono nei primi anni 2000. Inoltre, questi piccoli stati insulari hanno aritmeticamente un capitale umano limitato (la maggior parte conta un numero di abitanti inferiore ai 200.000), nonché un esiguo potere negoziale a livello economico. L’attuale modello economico dell’ISA prevede una royalty del 2% (che poi salirebbe al 6%) verso gli stati, mentre la compagnia estrattiva riceverebbe il 70% dei guadagni complessivi e l’ISA il 6%. Vari stati, inclusi 47 paesi africani, si sono espressi contro questa ripartizione, che attribuirebbe una royalty e un ritorno all’ISA troppo bassi a fronte di una sproporzionata percentuale a vantaggio di compagnie private.
A livello globale c’è quindi il rischio dell’acuirsi di ineguaglianze fra paesi e dell’inasprirsi delle ingiustizie legate ai cambiamenti climatici. Come ha spiegato un ex Ministro dell’Ambiente di Kiribati, uno stato composto da 33 atolli sparpagliati su un’area di circa 3,5 milioni di chilometri quadrati (un’area più grande dell’India): “L’estrazione mineraria nelle acque profonde, che faccenda ironica! Prima ci dicono che abbiamo un problema perché i paesi occidentali hanno bruciato troppo carbone, e ora gli stessi paesi vogliono prendere i nostri minerali non rinnovabili per risolvere il problema?”.

Nella foto: L’isola di Tarawa, nel Pacifico centrale, a Kiribati.

Inoltre, dice Andy Whitmore, della Deep Sea Mining Campaign (DSMC): “L’estrazione di minerali dai fondali profondi dell’oceano promuove l’idea che una crescita senza limiti sia possibile, e che semplicemente sia solo diversa”. Già con la dichiarazione sullo Sviluppo Sostenibile entro il 2030, le Nazioni Unite e i paesi firmatari hanno espresso il bisogno di attuare una trasformazione profonda degli attuali modelli di consumo e produzione. Un cambiamento lineare, in cui produzione e consumo rimangono invariati, trovando solo fonti diverse di approvvigionamento, è purtroppo una chimera.
Ma ci sono anche segnali incoraggianti. L’8 settembre 2021 a Marsiglia i membri dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Union for Conservation of Nature, IUCN), che conta 1400 membri da oltre 170 paesi, hanno votato una mozione per stabilire una moratoria sull’estrazione mineraria dai fondali profondi. A votare a favore è stato l’80% delle agenzie governative e il 90% dei voti della società civile, in una decisione storica che segue l’appello di 570 scienziati provienienti da 44 paesi diversi a non avviare l’estrazione mineraria dai fondali marini profondi fino a quando non sarà disponibile una maggiore evidenza empirica sui potenziali impatti ambientali. Inoltre, dopo aver sviluppato con l’OCSE e altre organizzazioni la prima guida per gli investimenti sostenibili nell’economia dell’oceano, UNEP-FI sta ora lavorando con queste organizzazioni a una lista che escluderebbe gli investimenti per l’estrazione mineraria dai fondali profondi dalle attività dell’economia dell’oceano da ritenersi sostenibili. Inoltre, BMW, Samsung SDI, Volvo e Google si sono di recente impegnate a non approvvigionarsi di minerali provenienti dai fondali marini.
Sarà cruciale riconoscere l’oceano come un bene pubblico mondiale, la cui preservazione e il cui uso sostenibile sono responsabilità di tutti i paesi. È in questa ottica che l’Alto Gruppo per un’Economia dell’Oceano Sostenibile ha proposto di istituire una ‘tassa globale per l’oceano’ per finanziare la protezione e l’uso sostenibile dell’oceano nei paesi più poveri e vulnerabili. L’OCSE ha proposto la creazione di un meccanismo internazionale di compensazione affinché ai paesi in via di sviluppo con vasti giacimenti minerari sottomarini, soprattutto le piccole isole, venga compensata la perdita dei profitti che deriverebbero dallo fruttamento di queste risorse, al fine di preservare habitat e funzioni dell’oceano vitali anche per il resto del mondo.
La sostenibilità ambientale e sociale che sono al cuore dell’agenda di Sviluppo per il 2030 non sono compatibili con un sistema incentrato sulla prevaricazione e lo sfuttamento, né dell’altro né dell’ambiente. L’oceano, che visto dallo spazio è uno solo e unisce tutti i paesi, ci ricorda che siamo uniti a doppio filo nelle sfide del futuro. l’Ambasciatore delle Nazioni Unite per l’Oceano, il diplomatico delle isole Figi, Peter Thomson, non perde occasione di invitare a riportare la relazione del genere umano con la natura, e in particolare con l’oceano, sui binari del rispetto e dell’equilibrio, e dice : “Un uso sostenibile e la conservazione dell’oceano possono salvare l’umanità. Ci darà il cibo, l’energia, e le medicine di cui abbiamo bisogno. Ma solo se lo tratteremo in modo giusto.”
Piera Tortora

Piera Tortora

Coordinatrice dell’iniziativa Sustainable Ocean for All dell’OCSE.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI o dell’OCSE.
Redazione: Guido Alberto Casanova, Sara Cerutti (grafica), Ruben David, Francesco Fadani (grafica), Giorgio Fruscione, Gemma Ghiglia, Alberto Guidi, Alessandro Gili, Nicola Missaglia, Diana Orefice, Rosario Orlando, Alberto Rizzi, Veronica Tosetti.