Il Futuro
del Denaro

Il bitcoin doveva rappresentare la moneta dell'avvenire, con la sua sfida lanciata al sistema finanziario mondiale, alle banche centrali e ai loro tassi di cambio, in nome di un meccanismo decentrato e orizzontale. Invece, le criptovalute hanno visto circa mille miliardi di dollari andare in fumo negli ultimi mesi. È la fine della moneta digitale? O forse è solo un inciampo verso la più grande rivoluzione dei pagamenti dalla fine del baratto?

Quando portiamo in tasca gli spiccioli per prendere il caffè al bar, o paghiamo la spesa al supermercato appoggiando lo smartwatch sul Pos, o inviamo un bonifico, non ci pensiamo. Vogliamo solo soddisfare le nostre necessità e desideri nel più breve tempo possibile e al costo più basso: è a questo che serve il denaro dopotutto. Ma il denaro, oggi più che mai, non è più solo questo.

Anzi, probabilmente non lo è mai stato: fin da quando, nel settimo secolo a.C., sulle coste bagnate dal Mar Egeo, si iniziarono a coniare le prime monete delle polis. I volti dei sovrani che vi erano raffigurati ne rappresentavano e legittimavano il potere e il controllo sulle attività commerciali.

Sky e ISPI contributor

Giornalista economico di Sky TG24 e collaboratore di ISPI e Il Foglio, ha lavorato anche per Lavoce.info come fact-checker.

Oggi sul futuro del denaro si combattono almeno tre sfide. Quella sul controllo dei prezzi, tornati ad accelerare a velocità dimenticate negli ultimi decenni, con i banchieri centrali alle prese con il dilemma di dover ridurre l’inflazione e salvaguardare il valore dei nostri risparmi senza allo stesso tempo acuire il rallentamento economico già in atto. La sfida tecnologica per rendere le transazioni sempre più rapide e convenienti, e così accaparrarsi il controllo sul mercato degli strumenti di pagamento. E infine la sfida geopolitica, perché dalla valuta utilizzata per scambiarsi merci, materie prime e prodotti finanziari deriva una notevole capacità di intervento, come dimostrato dalle sanzioni occidentali contro la Russia.

Stiamo vivendo la seconda grande rivoluzione dei pagamenti, dopo quella che dal baratto ha portato alle prime monete.
Viviamo nella la seconda grande rivoluzione dei pagamenti, dopo il passaggio dal baratto alle monete.

Bitcoin mining farm installata dentro un capannone. Image credits: Marko Athissari (CC BY 2.0).

È questo lo scenario in cui si sta verificando la seconda grande rivoluzione dei pagamenti, dopo quella che dal baratto ha portato alle prime monete. I meno prudenti – in particolare nelle banche centrali – propongono di eliminare il contante come lo conosciamo oggi dalle nostre vite: già di per sé una grande novità. I più rivoluzionari vogliono perfino scardinare alla radice il sistema finanziario e monetario in nome di un nuovo paradigma fondato sulla decentralizzazione offerta dalla blockchain.

Fonte: BCE, Study on the payment attitudes of consumers in the euro area (SPACE), (2020)

Cos'è (diventato) il Denaro?

The circulation of confidence is better than the circulation of money.

Se oggi chiedessimo per strada a cosa corrisponde il valore delle monete che teniamo in tasca, probabilmente in pochi saprebbero dare una risposta convinta. Perché un foglio di carta firmato dal governatore della banca centrale dovrebbe avere un valore riconosciuto da tutti?

Fino al 1971 la risposta era semplice: perché un cittadino americano aveva la possibilità di entrare in una filiale della Federal Reserve e farsi cambiare i propri dollari in oro (e a loro volta tutti i cittadini dei paesi aderenti al sistema monetario di Bretton Woods potevano cambiare le proprie valute in dollari).

Riserve auree tedesche mostrate nel caveau della Deutsche Bundesbank, giugno 2017. Image credits: Deutsche Bundesbank/Nils Thies (CC BY-NC-ND 2.0).

Così funzionava in fondo da sempre: il valore del denaro era determinato dalla disponibilità di metalli preziosi e dalla sua convertibilità. Non a caso, nel primo secolo dopo Cristo, quando gli imperatori romani da Nerone in poi intendevano finanziare la spesa pubblica e militare, svalutavano le monete, riducendone il peso e la purezza.

In epoca moderna, dall’introduzione delle banconote in poi, il valore del denaro non doveva più coincidere con quello del materiale di cui era fatto. Ma la corrispondenza rimaneva per l’insieme del contante in circolazione, che doveva essere proporzionato alle riserve di oro detenute dallo Stato.

Ma il 15 agosto 1971 cambiò, inevitabilmente, tutto: il Presidente Nixon annunciò la fine della convertibilità del dollaro in oro e inaugurò la vera e propria fiat money, una valuta che cioè non fonda il suo valore sulle riserve della banca centrale ma sulla legge dello Stato e sulla fiducia di chi la utilizza.

In altre parole, l’aspettativa che il valore stampato su quel pezzo di carta venga riconosciuto come tale da tutti gli altri consumatori e venditori e che possa essere utilizzato per pagare le tasse allo Stato. Già due secoli prima, durante il dibattito sulla Costituzione, James Madison lo disse meglio di chiunque altro: “The circulation of confidence is better than the circulation of money“.

Una moneta senza Stato

Il bitcoin non solo non fonda il proprio valore sulle riserve di una banca centrale, ma fa pure a meno di una legge che ne imponga il corso legale.

Fino a che qualcuno non ha pensato che – oltre ai caveaux pieni d’oro delle banche centrali – si sarebbe potuto fare a meno pure dello Stato. Parliamo di Bitcoin, lanciato nel 2008 da Satoshi Nakamoto, pseudonimo del fondatore anonimo che ne pubblicò il white paper. Una valuta che non solo non fonda il proprio valore sulle riserve di una banca centrale, ma che fa pure a meno di una legge che ne imponga il corso legale su un territorio definito. Cioè la garanzia fornita dalla legge che ogni credito pagato attraverso la moneta di corso legale sia considerato saldato, tra privati come anche nei confronti dello stesso Stato, per il pagamento delle imposte. La legge, e il conseguente controllo politico della moneta, non era più necessaria per Nakamoto.

Bitcoin – come le altre criptovalute successivamente – non ha bisogno di uno Stato per essere accettato come mezzo di pagamento. Anzi, esso fonda la propria forza proprio sulla decentralizzazione.

Statua di Satoshi Nakamoto a Budapest, Ungheria. L’identità del fondatore di Bitcoin è tuttora non confermata. Image credits: Elekes Andor (CC BY-SA 4.0).

A dire il vero, Nakamoto era partito da un bisogno assai più venale: rendere sicuro lo shopping in rete. Chi vende su Internet sa che il principale ostacolo da superare per incassare il prezzo pattuito da un compratore è evitare le truffe. Per questo ci possiamo affidare a terze parti che garantiscono la transazione per noi, ma questo comporta spesso alcune rigidità e dei costi. Insomma, alla fine ciò che serve per scambiarsi soldi elettronicamente – tra piccoli utenti fino al commercio internazionale – è la fiducia tra venditore e acquirente o, se assente, un ente terzo che faccia da garante della transazione, spesso una banca. “Un sistema di pagamento elettronico basato su prova crittografica invece che sulla fiducia, che consenta a due controparti qualsiasi di negoziare direttamente tra loro senza la necessità di una terza parte di fiducia” scrisse Nakamoto nel 2008. Perché attraverso la tecnologia blockchain, (1) i pagamenti sono irreversibili (scordiamoci dunque l’ansia che il bonifico venga ritirato), e (2) tutte le transazioni effettuate sono pubbliche, chiunque le può controllare, per quanto mittente e destinatario rimangano anonimi

Statua di Satoshi Nakamoto a Budapest, Ungheria. L’identità del fondatore di Bitcoin è tuttora non confermata. Image credits: Elekes Andor (CC BY-SA 4.0).

A dire il vero, Nakamoto era partito da un bisogno assai più venale: rendere sicuro lo shopping in rete. Chi vende su Internet sa che il principale ostacolo da superare per incassare il prezzo pattuito da un compratore è evitare le truffe. Per questo ci possiamo affidare a terze parti che garantiscono la transazione per noi, ma questo comporta spesso alcune rigidità e dei costi. Insomma, alla fine ciò che serve per scambiarsi soldi elettronicamente – tra piccoli utenti fino al commercio internazionale – è la fiducia tra venditore e acquirente o, se assente, un ente terzo che faccia da garante della transazione, spesso una banca. “Un sistema di pagamento elettronico basato su prova crittografica invece che sulla fiducia, che consenta a due controparti qualsiasi di negoziare direttamente tra loro senza la necessità di una terza parte di fiducia” scrisse Nakamoto nel 2008. Perché attraverso la tecnologia blockchain, (1) i pagamenti sono irreversibili (scordiamoci dunque l’ansia che il bonifico venga ritirato), e (2) tutte le transazioni effettuate sono pubbliche, chiunque le può controllare, per quanto mittente e destinatario rimangano anonimi

Caratteristiche che richiedono d’altronde una gran quantità di energia per realizzarsi: oggi si stima che la blockchain di Bitcoin consumi quasi lo 0,6 per cento dell’elettricità utilizzata in tutto il mondo. Sembra poco? È quasi quanto il consumo annuo dell’Egitto, o della Polonia.

Fonte: Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index

Il consumo di elettricità è dovuto allo stesso funzionamento della blockchain. Per permettere di effettuare le transazioni senza un intermediario terzo e allo stesso tempo di essere verificabili e non soggette a truffe, viene indetta una vera e propria competizione. È il processo chiamato mining di criptovalute, letteralmente estrazione. In premio ci sono infatti i nuovi Bitcoin “estratti”: il computer che effettuerà la transazione e aggiungerà dunque un nuovo blocco alla blockchain verrà ricompensato con una somma in nuovi Bitcoin.

Per scegliere il calcolatore che gestirà il pagamento viene ogni volta indetta una vera e propria gara di pochi secondi: a vincerla è chi riesce a risolvere un problema matematico complesso prima degli altri, secondo il metodo chiamato “proof-of-work”. Per riuscire a spuntarla i miners investono in nuovi macchinari e potenza di calcolo, che richiedono una quantità di energia crescente. Troppa, secondo i critici che non trovano in Bitcoin ragioni valide – a loro parere – per un tale consumo.

Bitcoin in crisi d'identità

Oggi si contano quasi 13mila criptovalute, ma sono ancora una briciola rispetto ai numeri della finanza tradizionale.

Quattordici anni dopo, le criptovalute sono ormai una realtà affermata, così come lo è il loro obiettivo di decentralizzazione finanziaria. Da allora si sono moltiplicate: il portale CoinGecko ne conta quasi 13mila, per un valore totale di mercato superiore ai 2mila miliardi di dollari per il 60 per cento composto da Bitcoin ed Ethereum, la seconda criptovaluta più apprezzata. Ancora una briciola rispetto ai numeri della finanza tradizionale – il mercato azionario globale vale più di 100mila miliardi di dollari – ma impressionanti per un asset class mal visto dai regolatori di tutto il mondo e nato meno di vent’anni fa.

Fonte: CoinMarketCap.com e TradingView. I dati sulle Criptovalute provengono da Binance, eccetto che per Shiba Inu (Uniswap), FTX Token (FTX) e Crypto.com (Bittrex). Elaborazione Visual Capitalis. Dati aggiornati al 13/05/2022.

Ma tanto successo basta per considerare le criptovalute delle vere valute alternative al denaro come l’abbiamo sempre conosciuto? L’economista neoclassico britannico William Stanley Jevons nel 1875 definì in un saggio divulgativo le tre caratteristiche fondamentali che non possono mancare a una buona valuta per essere considerata tale. Prima di tutto deve essere un efficace mezzo di scambio. Per comprendere quanto sia importante disporre di un mezzo di pagamento standardizzato e accettato da tutti basta immaginare per un attimo di farne a meno. Jevons ci provò raccontando nel suo saggio del viaggio di Mademoiselle Zélie, una cantane lirica parigina molto in voga che durante un tour mondiale si ritrovò a esibirsi anche in una piccola isola nell’arcipelago della Polinesia francese, a quasi 6mila chilometri di distanza dalla costa più orientale dell’Australia. Poiché sull’isola le monete scarseggiavano e il baratto era la forma di pagamento più diffusa, la sua performance fu così saldata: tre maiali, ventitré tacchini, quarantaquattro polli, cinquemila noci di cacao, oltre a una significativa quantità di banane, limoni e arance. Una così notevole quantità di bestiame, frutta e verdura a Parigi avrebbero potuto fruttare alla signorina Zélie una fortuna, ma nell’arcipelago non poteva venderli, vista la scarsità di moneta. In attesa di portarli sulla terra ferma, fu costretta dunque a nutrire i maiali e i polli con la stessa frutta con cui era stata pagata.

Il secondo elemento che deve contraddistinguere una buona valuta è poter essere un’unità di conto, cioè deve permettere di confrontare in maniera omogenea il valore di prodotti e servizi molto diversi tra loro. Una caratteristica impossibile da ottenere con il baratto. Provate a offrire una bottiglia d’acqua in cambio di un iPhone in mezzo al deserto e in Piazza Duomo a Milano e ne capirete il motivo: il valore che attribuiamo agli oggetti dipende (anche, non solo) da quanto li percepiamo necessari. Per di più il baratto spesso non permette di dividere e utilizzare il reddito secondo le nostre esigenze: un sarto potrà anche avere un cappotto pronto da offrire al mercato, ma supererà di gran lunga il valore del pane che vuole ottenere dal fornaio, o la carne del macellaio, e non potrebbe certo tagliare il cappotto in più parti.

Terzo elemento, la moneta deve svolgere il ruolo di riserva di valore. Da quando l’uomo ha potuto liberarsi dall’agricoltura di sussistenza ha iniziato a risparmiare una parte del proprio reddito per spenderlo in futuro. Per farlo è necessario disporre di uno strumento che sia facilmente conservabile e che non perda valore nel tempo. Il fatto che i ritrovamenti di monete antiche abbondino, mentre non abbiamo mai ritrovato depositi di grano, di carne o di spezie risalenti al Medioevo ellenico, ci fa intuire facilmente perché gli antichi greci le adottarono.

Primo elemento

Efficace mezzo di scambio

Secondo elemento

Poter essere un'unità di conto

Terzo elemento

Svolgere il ruolo di riserva di valore

Chiusa questa parentesi, possiamo dare una risposta alla domanda sull’aderenza delle criptovalute alla definizione di moneta. Andiamo per punti. Come mezzo di pagamento l’utilizzo di Bitcoin&co appare molto limitato al momento, per quanto in crescita. Ci aveva provato Tesla, quando Elon Musk annunciò a inizio 2021 che la società avrebbe accettato pagamenti in Bitcoin per vendere le proprie auto, giusto un paio di mesi prima di esternare su Twitter la propria disapprovazione per l’impatto ambientale di Bitcoin. Purtroppo la società non ha fornito dati sulle effettive vendite attraverso questo canale di acquisto. Ma prima di Musk anche il miliardario Tilman Fertitta aveva messo in vendita le supercar del proprio auto saloon di lusso a Houston in cambio di Bitcoin. In tre anni, ha detto l’anno scorso alla Cnbc, è riuscito a venderne 17. Non proprio un successo.

Un tecnico al lavoro su computer che scavano i bitcoin alla Bitminer Factory di Firenze, 2018. Image credits: Reuters/Alessandro Bianchi.

Anche come unità di conto per ora le criptovalute hanno fatto scarsi passi in avanti. A oggi sono infatti considerate dalla stragrande maggioranza del pubblico come un asset class speculativa in cui investire per ricavarne un profitto. E allo stesso modo sono in pochi a considerare Bitcoin una riserva di valore, vista la smisurata volatilità a cui è sottoposto. Al più ci sono investitori poco avversi al rischio che – sulla base dell’andamento passato del valore di Bitcoin – si aspettano che il suo prezzo continui a crescere nel tempo, e dunque investono a lungo termine. Ma non si può arrivare comunque, oggi, a considerare le criptovalute un’efficace riserva di valore. C’è forse qualcuno disposto a depositare il suo intero stipendio in un wallet Bitcoin oggi? Dal 2016 questa criptovaluta ha subito fluttuazioni giornaliere superiori all’1 per cento (in positivo o in negativo) più della metà delle volte, con variazioni medie del 2,66 per cento. In media, un giorno a settimana Bitcoin si è apprezzato o deprezzato del 5 per cento. Come metro di paragone, nello stesso periodo l’euro nei confronti del dollaro è oscillato mediamente dello 0,33 per cento al giorno e solo 39 volte (una volta ogni due mesi) il cambio è variato più dell’1 per cento. In sostanza, In sostanza, Bitcoin soffre di una volatilità otto volte superiore a quella di una moneta forte come l’euro. La caduta libera che ha colpito Bitcoin negli ultimi giorni e che ha visto il suo prezzo dimezzarsi da novembre ne è solo l’ultima prova.

Fonte: CoinMarketCap; Statista 2022; The Bitcoin Volatility Index. Dati aggiornati al 13/05/2022.

Ma i rapporti di forza non cambiano nemmeno se prendiamo in considerazione valute considerate decisamente più fragili: sempre dal 2016 a oggi, Bitcoin ha subito oscillazioni giornaliere quasi 4 volte superiori al rublo russo e alla lira turca. Per trovare una valuta che abbia la stessa volatilità di Bitcoin negli ultimi 6 anni bisogna dirigersi nel Venezuela di Nicolás Maduro, dove il bolivar ha subito oscillazioni medie giornaliere al pari del re delle criptovalute (escludendo l’outlier dell’iper-svalutazione del 99,6 per cento del 5 febbraio 2018, decisa dalla banca centrale venezuelana).

Il futuro del denaro a El Salvador?

Per trovare il primo paese al mondo che ha adottato come valuta legale Bitcoin bisogna rimanere sempre nel continente latinoamericano, spostandosi di 2.400 chilometri da Caracas. È lo stato centro-americano di El Salvador infatti ad aver introdotto la criptovaluta come forma di pagamento legale sia per le transazioni (ciò significa che negozi e imprese sono obbligate ad accettare Bitcoin) che per pagare le tasse.

Una caffetteria di Starbucks espone il cartello “Cassa esclusiva per bitcoin” dopo che El Salvador ha adottato la criptovaluta come metodo di pagamento. Image credits: Reuters/Jose Cabezas.

Da settembre nel paese sono stati installati bancomat per acquistare criptovalute e a ogni cittadino è stato fornito un wallet digitale con i primi 30 dollari in Bitcoin (ai prezzi di oggi varrebbero 24$). A fare in modo che accadesse è stato il presidente di El Salvador, il quarantenne Nayib Bukele che su Twitter si definisce “Ceo” del paese (la versione precedente della biografia riportava “imperatore”) ed è un vero e proprio fanatico di Bitcoin, a cui dedica la maggior parte dei suoi messaggi. Nel paese dal settembre scorso si può pagare in criptovalute la spesa al supermercato e, in uno Stato in cui il 70 per cento della popolazione non ha un conto bancario, l’utilizzo di Bitcoin si è diffuso velocemente, secondo i dati del governo salvadoregno.

Ma un recente working paper ha svelato dati deludenti sulla reale adesione: se una porzione ragguardevole della popolazione ha scaricato il wallet Bitcoin messo a disposizione del governo, il 60 per cento, solo il 5 l’ha effettivamente utilizzato per pagare le imposte e solo un’azienda su cinque – soprattutto le più grandi – lo accetta come metodo di pagamento.

Ma d’altronde qual era l’alternativa per l’economia di El Salvador? L’unica moneta legale, prima dell’anno scorso, era il dollaro americano: il Paese ha infatti abbandonato nel 2001 la sua valuta nazionale, il colón, dopo anni di altissima inflazione. Ha rinunciato dunque a una propria politica monetaria e la sua stabilità finanziaria dipende dagli aiuti internazionali (quando tenta infatti di finanziarsi sul mercato autonomamente in dollari americani lo fa a tassi di interesse che arrivano fino al 17 per cento!). Una condizione che spiega buona parte della decisione salvadoregna di adottare Bitcoin, e anche quella della Repubblica Centraficana, secondo paese a fare questa scelta ad aprile 2022.

Alcune persone prelevano da uno sportello Bitcoin di Athena durante la Conferenza Latinoamericana su Bitcoin Blockchain (LABITCONF) in El Salvador, Novembre 2021. Image credits: Reuters/Jose Cabezas.
Ma è realistico pensare di trovare le risposte che cerchiamo sul futuro del denaro nella povera economia di El Salvador o in quella centraficana? Probabilmente no. Per scoprire la fine che faranno i nostri portafogli, l’attenzione va posta alla testa del sistema finanziario globale, che oggi è bifronte: le banche centrali da un lato e – semplificando molto – il settore privato dall’altro.
Alcune persone prelevano da uno sportello Bitcoin di Athena durante la Conferenza Latinoamericana su Bitcoin Blockchain (LABITCONF) in El Salvador, Novembre 2021. Image credits: Reuters/Jose Cabezas.
Ma è realistico pensare di trovare le risposte che cerchiamo sul futuro del denaro nella povera economia di El Salvador o in quella centraficana? Probabilmente no. Per scoprire la fine che faranno i nostri portafogli, l’attenzione va posta alla testa del sistema finanziario globale, che oggi è bifronte: le banche centrali da un lato e – semplificando molto – il settore privato dall’altro.
Le prime detengono nelle loro mani il monopolio dell’emissione di denaro da quando la Bank of England stampò la prima sterlina in cambio di un grosso prestito fatto alla Corona da un gruppo di privati, per finanziare la Guerra dei nove anni contro la Francia. Inizialmente in realtà erano poco più che casseforti per le spese dei governi nazionali, e solo nell’ultimo mezzo secolo sono diventate le istituzioni indipendenti che conosciamo, in nome della stabilità dei prezzi.
Il settore privato è invece decisamente più eterogeneo, e sempre più lo è diventato negli ultimi due decenni. Da una parte ci sono chiaramente le banche private, che regolano i pagamenti e la gestione del credito, la fonte da cui l’economia capitalista si abbevera per far funzionare tutti i suoi ingranaggi.

Ma, negli ultimi due decenni, un’altra classe imprenditoriale ha allargato le proprie mire sul business: i miliardari tech della Silicon Valley, che ai completi della City e di Manhattan preferisco le felpe col cappuccio, e che hanno sparigliato ogni concorrenza nei settori della pubblicità e della raccolta dei dati degli utenti. Dopo la prima ondata – i motori di ricerca e i servizi online – e la seconda – i social network – era impossibile che Big Tech non iniziasse a bramare anche i preziosissimi dati delle carte di credito e dei pagamenti. D’altronde, cosa c’è di meglio che conoscere direttamente la lista della spesa per targetizzare al meglio la pubblicità online di uno shampoo o di una crema spalmabile?

Il tentativo di Facebook

Nel 2019 Facebook annuncia Libra, una nuova criptovaluta con l’ambizione di bypassare le banche.

La prima scossa di terremoto è arrivata il 18 giugno 2019. In Italia la maggioranza di governo si stava riassestando dopo le elezioni europee, mentre il mondo discuteva della ricandidatura del presidente Trump e delle proteste a Hong Kong contro la proposta di legge sull’estradizione in Cina. Quel giorno, Facebook, assieme ad altri 27 partner tra cui Mastercard, PayPal, Visa e ebay, annunciò Libra, una nuova criptovaluta che avrebbe dovuto permettere scambi di denaro istantanei in tutto il mondo e senza commissioni, direttamente dal proprio smartphone, con Whatsapp o Instagram. Una valuta privata e digitale, tecnicamente chiamata stablecoin, nata da una grande ambizione: bypassare le banche – dicendo addio ai bonifici bancari e pure a strumenti come PayPal (che si appoggia sempre agli istituti di credito, facendo da intermediario) – attraverso una vera e propria nuova moneta privata, garantita da riserve proprio come le valute tradizionali.

A differenza di Bitcoin, Libra avrebbe dovuto avere un valore stabile nel tempo, basato su quello di un paniere di valute internazionali (in particolare dollaro ed euro), che ne avrebbero garantito il prezzo. Ma questa non era l’unica differenza rispetto al mondo cripto: sebbene fosse stata presentata al pari di una criptovaluta, la blockchain su cui si sarebbe basata Libra non sarebbe stata decentralizzata e democratica quanto quelle esistenti.

Le transazioni sarebbero state infatti eseguite sui server del consorzio fondatore, con sede in Svizzera. Facebook voleva applicare il modello social network che ne ha fatto la sua fortuna – algoritmo centralizzato, modello top-down da Grande Fratello – a un business, quello delle criptovalute, che si fonda sulla verifica peer-to-peer e sull’assenza di un unico padrone della baracca.

Bastarono tre mesi per far crollare le basi del progetto. Zuckerberg aveva peccato di hỳbris: si aspettava che annunciare una nuova moneta privata e digitale non avrebbe fatto arrabbiare nessuno. E invece fece arrabbiare tutti. Le banche private temevano di rimanere tagliate fuori dal business su cui per secoli avevano mantenuto il controllo. I banchieri centrali capirono che il progetto di Libra poteva mettere in discussione la loro stessa missione di garantire la stabilità monetaria ed emettere le uniche valute legalmente utilizzabili negli Stati. Pure i cripto-entusiasti protestarono, perché il white paper di Libra saccheggiava il loro vocabolario ma rimaneva “un lupo centralizzato travestito da agnello decentralizzato” (a detta di Joseph Lubin, co-fondatore di Ethereum).

Tutti contribuirono a picconare la nuova creatura di Zuckerberg. La Bce auspicava che gli europei non fossero “tentati di lasciarsi alle spalle la sicurezza del sistema di pagamenti odierna in favore delle seducenti ma infide promesse del richiamo delle sirene di Facebook”. Il presidente Trump invitò Menlo Park a seguire le regole e richiedere “un documento di autorizzazione bancaria” come tutti gli altri. Il Fondo Monetario Internazionale invitò gli stati a “prendere le giuste misure prima che fosse troppo tardi”.

Uno dopo l’altro, i partner uscirono dal progetto: PayPal, ebay, Stripe, Mastercard, Visa. Fu un fuggi fuggi generale. Libra fu accantonato, cambiò nome in Diem, fu abbandonata dal suo creatore quando David Marcus lasciò Facebook, e ora è pronta per essere riposta nello scatolone insieme alle (tante) idee di Zuckerberg finite nel dimenticatoio. Oggi di quel progetto è rimasto solo un fratello minore, un token virtuale che potrebbe essere utilizzato per scambiarsi soldi sulle app di gigante di Menlo Park, senza le ambizioni di avere un proprio valore.

La battaglia per la decentralizzazione

Ma sebbene nella battaglia contro Libra regolatori centrali e cripto-entusiasti si siano trovati spalla a spalla sullo stesso fronte, nello scontro per il futuro del denaro si sono giurati guerra. Come funzioneranno i pagamenti, chi gestirà le monete che terremo in portafoglio (o più probabilmente sullo smartphone), da quali valichi passeranno i fiumi di denaro dell’economia: tutto dipende dalla risposta a una domanda. Chi vogliamo che controlli e garantisca il denaro?

Quarant’anni fa avevamo scelto la strada dei tecnici: affidare le banche centrali a esperti non eletti ma nominati dal governo in carica, con ampi spazi d’autonomia e indipendenza. Il 12 febbraio 1981 in Italia si celebrò il cosiddetto divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro: fino ad allora infatti la Banca d’Italia era costretta ad acquistare alle aste tutti i titoli di debito rimasti invenduti e il governo stesso aveva il potere formale di modificare il tasso di interesse (sia pure su proposta del governatore).

Un equilibrio di potere – con la supremazia della politica sull’economia – comune in tutto il mondo ma che non appariva più sufficiente per contrastare l’elevatissima inflazione che colpì le economie di tutto il globo. Per contrastare il rialzo dei prezzi – arrivato sopra il 20 per cento nel 1980 – la politica avrebbe dovuto mettere un freno alla propria spesa pubblica e alzare il costo del denaro, indebolendo la crescita economica e il proprio programma politico. Ecco perché il potere di regolare il denaro fu affidato ai tecnici, non influenzati – almeno, non tanto quanto i politici – da incentivi elettorali, ma d’altro canto meno controllabili dall’opinione pubblica.

Oggi la tecnologia ci pone davanti una nuova scelta. Vogliamo mantenere il controllo della moneta nelle mani di pochi tecnici specializzati e rispettati, oppure democratizzarlo attraverso la tecnologia decentralizzata della blockchain?
Vogliamo mantenere il controllo della moneta nelle mani di pochi tecnici specializzati, oppure decentralizzarlo attraverso la blockchain?

Foto aerea di una bitcoin mining farm ad Alberta, Canada. Image credits Curtis Huisman (CC BY 4.0).

La domanda appare oggi retorica: le criptovalute sono per ora tutt’altro che pronte a prendere il controllo del sistema monetario mondiale, mentre qualche speranza in più potrebbero averla le stablecoin (scambiate sempre sulla blockchain, ma il cui valore non fluttua sulla base di domanda e offerta, ma è ancorato a un bene reale, come il dollaro o l’oro). D’altronde per quanto le teorie sulla decentralizzazione sfocino spesso nell’ideologia, per i ricercatori di Flipside Crypto il 95 per cento di Bitcoin sarebbe in mano al 2 per cento degli account. Una decentralizzazione che assomiglia parecchio da questo punto di vista alla centralizzatissima Wall Street.

Il colpo di reni delle banche centrali

Le preoccupazioni sull’utilizzo illegale delle criptovalute sono state confermate anche durante il conflitto fra Russia e Ucraina.

Ma i banchieri centrali sentono comunque il fiato sul collo della decentralizzazione: non è un caso che da un paio d’anni a questa parte abbiano iniziato un’aggressiva campagna contro Bitcoin&co. “Serve per il riciclaggio di denaro” (Christine Lagarde, presidente della Bce), “estremamente inaffidabile” (Janet Yellen, segretaria al Tesoro americano ed ex governatrice della Fed), “asset speculativo” (Haruhiko Kuroda, governatore della Banca del Giappone). E queste sono le accuse che arrivano dai banchieri centrali di paesi liberali.

D’altronde le preoccupazioni sull’utilizzo illegale delle criptovalute sono state confermate anche nelle ultime settimane. Avendo la Federazione Russa perso l’accesso al mercato dei capitali occidentali e con la propria banca centrale isolata, le criptovalute possono essere una buona alternativa – seppur non risolutiva – per Mosca per aggirare le sanzioni e continuare ad acquistare prodotti e merci all’estero (la maggior parte delle esportazioni sono energetiche ed escluse dalle sanzioni). Secondo Christine Lagarde i volumi delle conversioni di rubli in cripto sono ai massimi da mesi. Ecco perché la Commissione europea ha dovuto estendere le sanzioni anche su Bitcoin&co e i più grandi siti di exchange come Coinbase hanno bloccato le proprie attività in Russia. Allo stesso tempo, va anche sottolineato che Bitcoin ed Ethereum sono stati un efficace strumento di finanziamento di aiuti all’Ucraina, permettendo l’afflusso di 100 milioni di dollari. Come sempre, più che lo strumento in sé va valutato l’utilizzo che se ne fa.

Avendo la Federazione Russa perso l’accesso al mercato dei capitali occidentali e con la propria banca centrale isolata, le criptovalute possono essere una buona alternativa.

Chiusa fuori dal mercato dei capitali occidentali, le criptovalute si sono rivelate una buona alternativa per la Russia.

Interno di uno stabilimento di Bitcoin mining (Argo Blockchain Mirabel) a Laval, Canada. Image Credits: MikeBogosian (CC BY-SA 4.0).

Guerra o meno, altrove ci vanno decisamente meno per il sottile. La Cina, dopo un’escalation di regolamentazione, ha definitivamente messo fuori legge il mining (letteralmente l’ “estrazione” di nuove criptovalute, con cui vengono ricompensati coloro che mettono a disposizione la potenza di calcolo dei propri computer per gestire le transazioni sulla blockchain) e le stesse transazioni. La Repubblica Popolare era diventato il maggior Paese per potenza di calcolo prodotta, una vera e propria Eldorado per i miners: secondo i dati del Cambridge Centre for Alternative Finance, la Cina, fino a due anni fa, ospitava oltre il 70% dei server che tengono in piedi la blockchain di Bitcoin, una porzione che si è via via ridotta al susseguirsi dei divieti di Pechino, fino ad azzerarsi durante l’estate del 2021.

Fonte: Cambridge Centre for Alternative Finance; September 2019 to August 2021; Statista 2022

La stessa banca centrale russa – almeno prima dell’invasione dell’Ucraina – aveva proposto di vietare l’utilizzo e il mining di criptovalute. E secondo uno studio della Law Library del Congresso degli Stati Uniti altri otto paesi hanno già bandito le valute decentralizzate: Algeria, Bangladesh, Egitto, Iraq, Marocco, Nepal, Qatar e Tunisia. Appare insomma chiaro che alle autocrazie una valuta decentralizzata e anonima non vada a genio, e che a differenza delle democrazie non si facciano tanti problemi a bandirla. Ma anche in Occidente – con le armi liberali della regolamentazione – si stanno prendendo le misure per nuove limitazioni alle criptovalute. Anche se non sono stati ancora forniti dettagli, la FED e la SEC già a fine 2021 si erano dette convinte della necessità di regolare le attività finanziarie delle banche americane su Bitcoin&co, le piattaforme di exchange e l’emissione di nuove crypto e token. Su posizioni simili si trovano i regolatori anche dall’altra parte dell’Oceano: il vicepresidente dell’Esma (l’autorità europea che regola i mercati finanziari) ha infatti auspicato, parlando al Financial Times, che i Paesi europei vietino i metodi più energivori di gestione della blockchain, in particolare quella che regola Bitcoin che richiede una considerevole quantità di energia per ogni transazione. Un’opzione su cui il Parlamento europeo si è espresso negativamente nelle ultime settimane.

In arrivo il contante... digitale

È probabile insomma che il 2022 ci riservi delle novità per la regolamentazione sulle criptovalute. Ma in realtà l’attesa è concentrata su un’altra novità in arrivo dalle banche centrali e sta tutta in una sigla: CBCD, o meglio Central bank digital currency, ovvero valute digitali che saranno emesse dalle banche centrali nel giro di qualche anno per sostituire – o affiancare – il contante fisico

Per non fare la fine degli addetti ferroviari ai passaggi a livello, dei lampionari o delle centraliniste, i banchieri centrali devono offrire una reale alternativa ai pagamenti digitali, decentralizzati e non. Oggi chi volesse spedire soldi all’estero – basti pensare alle rimesse degli emigrati – deve spesso pagare laute commissioni alle banche intermediarie: in media del 6,5 per cento secondo la Banca Mondiale. E negli ultimi 10 anni, nonostante l’aumentata concorrenza, McKinsey calcola che i ricavi globali dei pagamenti sono sostanzialmente raddoppiati. Con Bitcoin queste transazioni sono gratuite.

Fonte: The 2020 McKinsey Global Payments Report

Le banche centrali non sono state convinte fin dal principio di abbandonare stampa e pressa per abbracciare le valute digitali: un report del Financial Stability Board, organo molto ascoltato dal G20, risalente al 2019 riportava che la maggior parte delle istituzioni aveva identificato chiaramente i rischi di lanciare digital currency, a differenza dei benefici che parevano sfuggire. Dopo Libra e dopo il boom di Bitcoin, il vento è cambiato e oggi sono 91 le banche centrali che stanno studiando – a diversi stadi – l’introduzione di cash digitale. Scrivendola con le parole di Nouriel Roubini, “se l’alternativa è un sistema bancario fragile e una crypto-distopia, dovremmo tenere in buona considerazione l’idea [delle digital currency]”.

Un tecnico al lavoro su computer che scavano i bitcoin alla Bitminer Factory di Firenze, 2018. Image credits: Reuters/Alessandro Bianchi.

Alcuni commentatori hanno sottolineato anche le potenzialità del contante digitale nella diffusione delle valute a livello internazionale: se utilizzabile per le transazioni internazionali, i costi ridotti e la maggiore sicurezza potrebbero contribuire a rafforzare le valute che si dotano di uno strumento digitale. La stessa Bce ritiene che l’Euro digitale possa contribuire al rafforzamento del ruolo internazionale della moneta unica, per quanto non lo consideri un obiettivo primario per il progetto. E le sanzioni occidentali alla Federazione Russa – il blocco dei pagamenti in dollari e delle riserve valutarie della banca centrale – ci hanno rammentato l’importanza di diffondere le proprie valute come strumenti di pagamento internazionali. Su questo fronte oggi il dollaro è egemone: il 60 per cento delle riserve delle banche centrali sono denominate in dollari, così come il 60% del debito globale. Sui pagamenti invece l’euro ha guadagnato terreno negli ultimi anni, ed è utilizzato per circa 4 transazioni su 10 nel sistema Swift. Numeri ben chiari all’elefante – o meglio il panda – nella stanza della competizione valutaria globale: la Cina, che ha ambizioni da grande potenza ma non ancora una valuta utilizzata a livello internazionale, visto l’incerto stato di diritto cinese, dimostrato anche dalle decisioni di Pechino degli ultimi mesi sulla regolamentazione del mercato.

Banche centrali contro Big tech

Il denaro non è mai stato solo denaro, la storia è lì a insegnarcelo. Ma oggi le dimensioni in cui lo avevamo relegato vanno nuovamente ripensate.

Ecco perché diverse banche centrali stanno lavorando a emettere valute digitali. La Bce si è presa due anni di tempo per costruire l’Euro digitale, dopo una prima fase di consultazione. Garantirà un nuovo metodo di pagamento ai cittadini dell’Eurozona, aggiungendosi al contante fisico senza sostituirlo e offrendo la possibilità ai risparmiatori di depositare denaro in un conto aperto direttamente con la banca centrale, più sicuro e con minori costi, piuttosto che in istituti privati.

Anche la banca centrale americana, per ora più indietro sul progetto, ha accelerato il passo: il presidente Biden ha firmato a marzo un ordine esecutivo per prendere urgentemente in considerazione il progetto di un dollaro elettronico, e allo stesso tempo porre le basi per una regolamentazione più stringente sulle criptovalute.

Chi invece sta correndo parecchio è la Cina. È partita per prima, nel 2014, ed è tutt’ora in fase di test avanzato: secondo la banca centrale della Repubblica popolare, più di 260 milioni di cinesi alla fine dell’anno scorso avevano attivato un account. Le Olimpiadi invernali a Pechino sono state un’ulteriore occasione di visibilità, visto che agli atleti è stata data la possibilità di pagare tramite e-CNY, lo yuan digitale. Certo, una valuta elettronica in un’autocrazia come la Cina non può che far emergere pesanti incognite sulla privacy dei consumatori e sul rischio di sorveglianza di massa.

Chi sta correndo parecchio è la Cina: alle Olimpiadi invernali a Pechino, gli atleti hanno potuto pagare tramite e-CNY, lo yuan digitale.
Chi sta correndo parecchio è la Cina: alle Olimpiadi invernali a Pechino, gli atleti hanno potuto pagare tramite e-CNY, lo yuan digitale.

Una cameriera spiega come pagare un caffè in e-CNY a Pechino, Cina, 2022. Image credits: SCMP via Reuters Connect/Simon Song.

Un punto su cui si stanno interrogando anche le banche centrali occidentali: l’Euro o il Dollaro digitali dovranno garantire l’anonimato delle transazioni, come avviene con il contante fisico, oppure i pagamenti lasceranno una traccia del loro percorso, in nome magari di una più dura lotta all’evasione fiscale?
E questo è solo uno dei tanti nodi ancora da sciogliere. Si potrà effettuare ogni tipo di pagamento e per ogni livello di importo attraverso le valute digitali (con conseguente incursione delle banche centrali nello spazio oggi occupato dagli istituti privati)? Saranno le banche private a distribuire la nuova valuta oppure direttamente la banca centrale, ampliandone il potere ma indebolendo il settore privato?

D’altra parte, lo strumento potrebbe garantire un certo numero di benefici, in particolare tre. Primo, garantire la sicurezza delle transazioni digitali, oggi affidate completamente alle banche private che sono però sempre soggette al rischio di fallimento a differenza delle banche centrali. Le nostre carte di pagamento funzionano prelevando dai conti correnti depositati negli istituti di credito, a cui sostanzialmente prestiamo i nostri soldi, per preservarli in modo pratico e (in tempi normali) ricavarne un piccolo rendimento. Una valuta digitale sarebbe invece emessa attraverso le riserve della banca centrale, senza alcun rischio né costose commissioni dovute agli istituti privati.

Secondo, offrire l’accesso ai pagamenti digitali anche ai consumatori che non possiedono, per volontà o necessità, un conto bancario privato.

Terzo, rafforzare gli strumenti di politica monetaria: oggi gli aiuti delle banche centrali per raggiungere l’economia reale devono passare per gli istituti privati. Ma, se, oltre alle banche commerciali, ad avere un conto corrente nella banca centrale fossero anche i comuni cittadini, gli strumenti delle politiche monetarie espansive potrebbero essere più diretti e immediati.

Primo beneficio

Garantire la sicurezza
delle transazioni digitali

Secondo beneficio

Offrire l'accesso ai pagamenti digitali
anche ai consumatori che non possiedono
un conto bancario privato

Terzo beneficio

Rafforzare gli strumenti
di politica monetaria

Il denaro non è mai stato solo denaro, la storia è lì a insegnarcelo. Ma oggi le dimensioni in cui lo avevamo relegato vanno nuovamente ripensate. Il denaro ha confermato di essere un ottimo strumento di pressione geopolitica, più di quanto non si fosse già dimostrato. D’altronde, un fatto è escludere l’Iran dal sistema di pagamenti Swift e dalle transazioni in dollari come avvenuto nel 2012, tutta un’altra portata è fare lo stesso con la Russia, chiudendo i rubinetti finanziari che alimentano Mosca (tranne quello energetico, per ora).

Moneta Bitcoin sopra microchip/circuiti elettrici. Image credits: Marco Verch (CC BY 2.0).

Per alcuni commentatori le sanzioni accelereranno il ribilanciamento di altre valute rispetto a dollaro ed euro, ma le alternative oggi non paiono all’altezza, yuan compreso. Ma non solo: il futuro denaro è oggi una delle più interessanti frontiere tecnologiche, e le principali società dell’hi-tech del pianeta sono al lavoro per ridurre i tempi e i costi di pagamento. Parallelamente si decide la grande sfida per la decentralizzazione, di chi ha intuito che la rete può non solo offrire informazioni in tempo reale e farci interagire, ma pure organizzare la nostra vita. Ed ecco la terza dimensione: il controllo della moneta, di cui le banche centrali intendono gelosamente mantenere il privilegio di fronte alle rampanti Big Tech. Una sfida che si combatte sul filo della fiducia, l’unico fattore che in fondo conta per scrivere il destino delle valute. Fiducia da riporre in riconosciuti economisti non eletti ma nominati dai governi, o in algoritmi che teoricamente ci pongono uno al pari dell’altro ma dietro ai quali si possono nascondere gli interessi dei giganti tecnologici?

Moneta Bitcoin sopra microchip/circuiti elettrici. Image credits: Marco Verch (CC BY 2.0).

Per alcuni commentatori le sanzioni accelereranno il ribilanciamento di altre valute rispetto a dollaro ed euro, ma le alternative oggi non paiono all’altezza, yuan compreso. Ma non solo: il futuro denaro è oggi una delle più interessanti frontiere tecnologiche, e le principali società dell’hi-tech del pianeta sono al lavoro per ridurre i tempi e i costi di pagamento. Parallelamente si decide la grande sfida per la decentralizzazione, di chi ha intuito che la rete può non solo offrire informazioni in tempo reale e farci interagire, ma pure organizzare la nostra vita. Ed ecco la terza dimensione: il controllo della moneta, di cui le banche centrali intendono gelosamente mantenere il privilegio di fronte alle rampanti Big Tech. Una sfida che si combatte sul filo della fiducia, l’unico fattore che in fondo conta per scrivere il destino delle valute. Fiducia da riporre in riconosciuti economisti non eletti ma nominati dai governi, o in algoritmi che teoricamente ci pongono uno al pari dell’altro ma dietro ai quali si possono nascondere gli interessi dei giganti tecnologici?

Ecco perché il modo in cui domani pagheremo il conto al ristorante o l’abbonamento in palestra ci dirà molto del mondo in cui avremo deciso di vivere nei prossimi decenni.

Sky e ISPI contributor

Giornalista economico di Sky TG24 e collaboratore di ISPI e Il Foglio, ha lavorato anche per Lavoce.info come fact-checker.

maggio 2022

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.

Redazione: Michele Bertelli, Sara Cerutti, Francesco Fadani, Alberto Guidi, Nicola Missaglia, Francesco Nasi, Rosario Orlando, Luca Puzzangara, Vanessa Spadetto, Veronica Tosetti

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