Artico

Il Grande Gioco del secolo
di Marzio G. Mian

Artico

Il Grande Gioco del secolo
di Marzio G. Mian
“Tutto ha un prezzo, soprattutto la libertà”
“Tutto ha un prezzo, soprattutto la libertà”
“Tutto ha un prezzo, soprattutto la libertà”, dice Vittus Qujaukitsoq, ministro delle Miniere del nuovo governo Inuit di Nuuk, la lillipuziana capitale della Groenlandia, la più grande isola del mondo abitata da 56 mila persone. Il prezzo di cui parla Vittus è molto alto, e sarà il tipping point della rapida trasformazione dell’Artico: si tratta del via libera allo sfruttamento delle miniere per fare cassa e finanziare la totale indipendenza, cioè uscire definitivamente e presto dal Regno di Danimarca, di cui la Groenlandia, nonostante i molti passi fatti sulla via dell’autodeterminazione, tuttora rappresenta il 98 per cento del territorio. Ma la decisione, prioritaria per il nuovo esecutivo, ha un’enorme componente simbolica nel momento in cui nella regione  – dove la Groenlandia occupa un ruolo strategico centrale sia per la posizione geografica che per le sue immense risorse – è in atto una corsa tra potenze (e tra corporation) per la conquista delle ricchezze e degli spazi ora sempre più accessibili a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. Come è noto, l’Oceano Polare si sta rapidamente e ineluttabilmente sciogliendo perché il riscaldamento è doppio rispetto al resto del Pianeta. Un Nuovo Artico sta nascendo, si svela un’inedita, vasta area di globo piena d’opportunità cui la globalizzazione e gli uomini, da sempre pronti a inseguire nuove vie di sviluppo, non rinunciano.
Marzio G. Mian

Marzio G. Mian

Fondatore di The Arctic Times Project

Giornalista, ha fondato con altri giornalisti internazionali la società no profit The Arctic Times Project con sede negli Stati Uniti. È stato per sette anni vicedirettore di Io donna. Ha realizzato inchieste e reportage in 56 paesi. Artico. Nel 2017 ha pubblicato il libro “Artico. La battaglia per il Grande Nord” (Neri Pozza).
"Una parte del mondo ci vorrebbe chiudere in un museo, l’altra parte ci vede come l’affare del secolo"
Vittus Qujaukitsoq, ministro delle Miniere di Nuuk, Groenlandia
Secondo l’US Geological Survey soltanto il valore di petrolio e gas – il 40 per cento delle riserve mondiali – si aggirerebbe intorno ai 20 trilioni di dollari, l’equivalente del Pil annuale degli Stati Uniti, mentre la regione conterrebbe il 30 per cento di tutte le risorse naturali globali. E la Groenlandia si trova nel vortice di questo Grande Gioco del Ventunesimo secolo.

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L'Artico detiene il 40% delle riserve mondiali di petrolio e gas

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e il 30% delle riserve naturali globali

Secondo l’US Geological Survey soltanto il valore di petrolio e gas – il 40 per cento delle riserve mondiali – si aggirerebbe intorno ai 20 trilioni di dollari, l’equivalente del Pil annuale degli Stati Uniti, mentre la regione conterrebbe il 30 per cento di tutte le risorse naturali globali. E la Groenlandia si trova nel vortice di questo Grande Gioco del Ventunesimo secolo.

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L'Artico detiene il 40% delle riserve mondiali di petrolio e gas

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e il 30% delle riserve naturali globali

La coalizione di centrosinistra che reggeva il precedente governo condivideva l’idea di “Greenxit”, anche se divergeva sulla tempistica, ma era spaccata sulla questione dello sfruttamento minerario, in particolare sull’apertura del bacino di Kvanefjeld, nel Sud dell’isola, forse il più grande giacimento di terre rare e uranio al mondo. Un tema cruciale, perché una miniera di uranio a cielo aperto in quelle condizioni climatiche, secondo molti esperti, potrebbe inquinare con polveri radioattive l’intera Groenlandia meridionale.

L’uranio è materia politicamente sensibile, rientra nella sfera dell’interesse strategico in ogni parte del mondo – senza trascurare il fatto che la Danimarca dal 1985 è un Paese addirittura “anti nucleare” e oggi è il primo al mondo per la produzione d’energia eolica. Vittus, che occupava il ruolo di ministro degli Esteri e delle Risorse spingeva per rompere gli indugi e concedere il nulla osta definitivo alla società australiana Greenland Minerals and Energy (poi scalata dalla cinese Shenghe Resources Holding Ltd di Shanghai): unicamente con le tasse ricavate da quella concessione il governo potrebbe, infatti, coprire gran parte dei circa 500 milioni di euro stanziati ogni anno da Copenaghen per garantire un welfare non certo di standard scandinavo a una popolazione che soffre un degrado sociale senza precedenti.
Ma, oltre all’uranio e alle terre rare, in Groenlandia si trovano giacimenti di rubini, diamanti, oro, zinco, mentre offshore quelli di gas e petrolio, trentadue miliardi di barili quelli disponibili nel mare a Nord Est dell’isola. Nuova Australia, Nuovo Congo… si sprecano tra i nemici della Polar Rush le metafore neo–colonialiste per descrivere l’irruzione di questa terra sulla scena politica globale.
Quattro mappe dell’Artico pubblicate tra il 1999 e il 2014 da National Geographic.
Personaggio shakespeariano e spregiudicato, Vittus ha fatto saltare la coalizione con le sue dichiarazioni pro-uranio e secessioniste; ma soprattutto con le polemiche suscitate dai suoi sempre più stretti rapporti con Pechino e dall’ostilità dichiarata nei confronti del Regno danese così come di Washington e della Nato, accusati di non aver bonificato strutture missilistiche nucleari abbandonate e di godere di privilegi anacronistici con l’uso della base di Thule , la più importante “garitta” del Pentagono nell’emisfero settentrionale dai tempi della Guerra Fredda, collocata a 800 chilometri dal Polo Nord, dotata di un sistema radar per la difesa antimissile in grado di proteggere Stati Uniti ed Europa e di un centro d’ascolto globale (la cattura di Saddam Hussein nel deserto mesopotamico fu gestita lassù, tra i ghiacci).
C’è del marcio in Groenlandia? Con le elezioni dello scorso 24 aprile si è formata una nuova coalizione di quattro partiti che potremmo inquadrare come sovranista o secessionista, guidata dal precedente premier Kim Kielsen, ma ispirata dall’implacabile ministro delle Miniere.
Jesse Allen—NASA Earth Observatory. Gif by Marisa Gertz for TIME.
Anche se il primo provvedimento è stato quello di sostituire l’inglese al danese come seconda lingua, l’obiettivo è di aprire la porta della cassaforte agli investitori stranieri e avviare nuovi rapporti internazionali.
Prima di tutto con i cinesi. Ecco perché gli atti del governo della minuscola Nuuk, di cui fino a qualche anno fa le cancellerie non consideravano nemmeno l’esistenza, così come l’Artico era materia per diplomatici di terza fila, improvvisamente assumono una valenza che è emblematica del ruolo acquisito dalla regione negli equilibri e per la sicurezza mondiali. Copenaghen non può permettersi di perdere Kalaallit Nunaat, la terra dell’uomo del Nord, come gli Inuit chiamano l’isola che li ospita da cinquemila anni: “È diventata la più grande opportunità della sua storia”, dice Ulrik Pram Gad, giovane politologo dell’Università di Aalborg, nello Jutland danese.
Il condottiero e navigatore normanno Erik Thorvaldsson, noto come Erik il Rosso arrivò in Groenlandia nell’anno 985. Trovandola coperta di prati la chiamò “Terra verde”, questo il significato di Groenlandia. Kalaallit Nunaat è il nome dell’isola in lingua Inuit.
Perché c’è tutto da costruire, pianificare, spartire, perché si aprono nuovi immensi territori di pesca, nuove rotte mercantili, un nuovo mercato per milioni di turisti sempre più attratti dal Grande Nord: last chance tourism lo chiamano, ultima occasione per vedere quel mondo puro, bianco e selvaggio come ce l’eravamo immaginato. La Groenlandia uscì trent’anni fa dall’Unione, unico precedente alla Brexit; l’ultima speranza di Bruxelles è che decida di aderirvi da Stato indipendente. Nonostante le aperture commerciali degli ultimi anni, a partire dall’impegno di Antonio Tajani da commissario all’Industria per far restare l’Europa nella partita mineraria, e ai miliardi spesi in compensazione per le quote acquisite sulla pesca (addirittura la riapertura all’importazione delle pelli di foca nel mercato europeo) lo sguardo dei sovranisti eschimesi è volto alla Cina, potenza che si definisce “quasi artica” e che ha annunciato da poco lo sviluppo di una Via polare della Seta.
“Abbiamo bisogno dei capitali cinesi. E loro hanno bisogno del nostro pesce e dei nostri minerali”

Anche se il primo provvedimento è stato quello di sostituire l’inglese al danese come seconda lingua, l’obiettivo è di aprire la porta della cassaforte agli investitori stranieri e avviare nuovi rapporti internazionali.
Prima di tutto con i cinesi. Ecco perché gli atti del governo della minuscola Nuuk, di cui fino a qualche anno fa le cancellerie non consideravano nemmeno l’esistenza, così come l’Artico era materia per diplomatici di terza fila, improvvisamente assumono una valenza che è emblematica del ruolo acquisito dalla regione negli equilibri e per la sicurezza mondiali. Copenaghen non può permettersi di perdere Kalaallit Nunaat, la terra dell’uomo del Nord, come gli Inuit chiamano l’isola che li ospita da cinquemila anni: “È diventata la più grande opportunità della sua storia”, dice Ulrik Pram Gad, giovane politologo dell’Università di Aalborg, nello Jutland danese.
Il condottiero e navigatore normanno Erik Thorvaldsson, noto come Erik il Rosso arrivò in Groenlandia nell’anno 985. Trovandola coperta di prati la chiamò “Terra verde”, questo il significato di Groenlandia. Kalaallit Nunaat è il nome dell’isola in lingua Inuit.
“Abbiamo bisogno dei capitali cinesi. E loro hanno bisogno del nostro pesce e dei nostri minerali”

Perché c’è tutto da costruire, pianificare, spartire, perché si aprono nuovi immensi territori di pesca, nuove rotte mercantili, un nuovo mercato per milioni di turisti sempre più attratti dal Grande Nord: last chance tourism lo chiamano, ultima occasione per vedere quel mondo puro, bianco e selvaggio come ce l’eravamo immaginato. La Groenlandia uscì trent’anni fa dall’Unione Europea, unico precedente alla Brexit; l’ultima speranza di Bruxelles è che decida di aderirvi da Stato indipendente. Nonostante le aperture commerciali degli ultimi anni da parte europea, a partire dall’impegno di Antonio Tajani da commissario all’Industria per far restare l’Europa nella partita mineraria, e ai miliardi spesi in compensazione per le quote acquisite sulla pesca (addirittura la riapertura all’importazione delle pelli di foca nel mercato europeo) lo sguardo dei sovranisti eschimesi è volto alla Cina, potenza che si definisce “quasi artica” e che ha annunciato da poco lo sviluppo di una Via polare della Seta.
Nella foto: 19 luglio 2011, Zachary Brown della Stanford University sorseggia acqua dolce da uno stagno di ghiaccio marino sciolto nell’Oceano Artico. La missione ICESCAPE (Impacts of Climate on Ecosystems and Chemistry of the Arctic Pacific Environment) è un progetto della NASA, per studiare come la mutazione dell’Artico sta influenzando la chimica e gli ecosistemi dell’oceano. Buona parte dell ricerca si è svolta nei mari di Beaufort e Chukchi nelle estati 2010 e 2011. Foto: NASA/ Kathryn Hansen
La Groenlandia sta diventando il quartier generale di Pechino nel Grande Nord. La Cina ha in previsione di investire nell’isola circa 15 miliardi di euro in cinque anni, aprendo miniere di zinco e ferro, impegnandosi nella costruzione di tre aeroporti e una grande base “scientifica”. I cinesi nel 2017 sono stati a un passo dall’acquisizione di una base militare danese dismessa, se non fosse intervenuta direttamente Washington con un minaccioso comunicato. I ministri Inuit sono ricevuti regolarmente al più alto livello dal governo cinese, a Pechino la Groenlandia ha già aperto un’ufficio di rappresentanza, indifferente all’irritazione di Washington e all’indignazione di Copenaghen: sappiamo come l’Occidente sia bene attento a non interferire in Tibet, addirittura a evitare incontri ad alto livello con il Dalai Lama, ma la Cina opera in Groenlandia come ha fatto in mezz’Africa – sfruttamento in cambio d’infrastrutture – ignorando lo status di un’isola ancora territorio danese e prima base militare strategica americana nell’High North.
Nella foto: 19 luglio 2011, Zachary Brown della Stanford University beve acqua dolce da uno stagno di ghiaccio marino sciolto nell’Oceano Artico. La missione ICESCAPE (Impacts of Climate on Ecosystems and Chemistry of the Arctic Pacific Environment) è un progetto della NASA, per studiare come la mutazione dell’Artico sta influenzando la chimica e gli ecosistemi dell’oceano. Buona parte dell ricerca si è svolta nei mari di Beaufort e Chukchi nelle estati 2010 e 2011. Foto: NASA/ Kathryn Hansen

Un tavolo con pochi commensali, diffidenti, ambiziosi e piuttosto agguerriti. La Cina appariva come il convitato di pietra.

“Abbiamo bisogno dei capitali cinesi”, dice Vittus: “Senza di loro non possiamo diventare uno Stato nazione, aprire finalmente ambasciate e avere il pieno controllo di ciò che accade dentro e intorno alla nostra amata isola. E loro hanno bisogno del nostro pesce e dei nostri minerali. Indubbiamente ambiscono a un ruolo importante nell’Artico, e questo fa andare in bestia tutti, Danimarca, Unione Europea, Nato e soprattutto gli Stati Uniti”.
Finora la narrazione della cosiddetta Polar Rush – in tema di sfere d’influenza, di sviluppo tecnologico e delle infrastrutture, nella sicurezza marittima e militare così come sul fronte della regolamentazione di un nuovo spazio marino grande quanto il Mediterraneo, 2,8 milioni di chilometri quadrati – ha riguardato perlopiù le potenze artiche, quei paesi che s’affacciano sull’Oceano Polare e sono determinati a sfruttare la trasformazione economica e geopolitica innescata dal progressivo assottigliarsi del ghiaccio pluriannuale, fenomeno che, secondo la stragrande maggioranza degli scienziati, è “irreversibile”, anche perché prodotto da una serie di fattori (compresi quelli derivati dalle attività umane nel Pianeta) collegati e concomitanti chiamati “spirale mortale artica”.
Abbiamo già detto della Danimarca e del suo dramma amletico postcoloniale in Groenlandia. C’è la Russia, nazione storicamente e tradizionalmente legata al suo Grande Nord sin dall’epoca zarista e poi staliniana (anche con l’impiego industriale dei gulag), seimila chilometri di costa lungo il passaggio a Nord Est, l’attuale Northern Sea Route; la Norvegia, terra d’esploratori, avamposto Nato dai tempi della Guerra fredda, oggi “Emirato del Nord” grazie allo sfruttamento e all’esportazione del petrolio del Mare di Barents; il Canada, che ha fondato la sua identità nella mistica dell’High North e del Passaggio a Nord Ovest che attraversa un arcipelago artico di novemila isole; ci sono gli Stati Uniti, nazione artica (e petrolifera) quasi per caso dopo l’acquisto rocambolesco dell’Alaska dalla Russia zarista 151 anni fa (ad un prezzo da rapina, l’equivalente di 125 milioni di dollari attuali) e poi diventata potenza leader nella contesa nucleare con l’URSS in cima al mondo, quell’estenuante e per certi versi epica caccia del gatto con il topo tra i ghiacci.
Assegno di 7,2 milioni di dollari utilizzato dal Governo degli Stati Uniti per l’acquisto dell’Alaska dall’Impero Russo nel 1867, il cosiddetto “Alaska Purchase“. La cifra equivarrebbe oggi a circa 125 milioni di dollari.
Un tavolo con pochi commensali, diffidenti, ambiziosi e piuttosto agguerriti. La Cina appariva come il convitato di pietra. Aveva ottenuto nel 2013 lo status di Paese osservatore permanente al Consiglio Artico, forum politico e consultivo trasformatosi in un decennio in un club esclusivo, al quale è molto difficile accedervi. Pechino ce l’ha fatta, l’Unione Europea non ancora, ma l’Italia sì, grazie a un dossier presentato nel 2011 dall’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha fatto valere la consuetudine polare del nostro paese, con esploratori, scienziati e un’industria petrolifera d’avanguardia.
Negli anni scorsi la Cina ha poi investito nella ricerca scientifica polare, consapevole più di altri paesi che le manifestazioni climatiche nella fascia temperata del Pianeta (desertificazione e alluvioni) derivano dal riscaldamento e scioglimento dell’Artico. Sono state impiantate diverse basi scientifiche, alle Svalbard, nel Nord dell’Islanda, in Canada: tutte iniziative che hanno sollevato dubbi e teorie complottistiche sui veri obiettivi di quelle stazioni off limit, anche sull’onda di dichiarazioni sempre più esplicite da parte dei vertici del regime, i quali non fanno mistero del fatto che la Cina intenda ottenere il diritto allo sfruttamento dei nuovi territori marittimi, soprattutto in tema di trasporto commerciale e pesca, giudicando l’Artico il proprio “frigorifero del futuro” o “banca delle proteine”.
Le acque del Mare di Bering e del Mare di Beaufort si trasformeranno in zone altamente pescose e quindi a forte rischio di contese internazionali.
Ora Pechino ha annunciato ufficialmente di ritenersi una “potenza quasi-artica”, e lo ha fatto con grande enfasi diffondendo un libro bianco dedicato alle ambizioni cinesi nell’Artico, parte integrante della Belt and Road Initiative. La Via polare della Seta, altrimenti detta “Operazione Dragone Bianco” si gioca su più piani. Quello scientifico, come si è detto. Quello diplomatico, con intese bilaterali come l’accordo di libero scambio con l’Islanda, l’unico esistente tra la potenza asiatica e un paese europeo (la Cina ha anche costruito a Reykjavík una grande ambasciata che ospita quasi trecento persone, contro le 50 della residenza Usa). Sul piano regionale Pechino è coinvolta in tutti i contesti multilaterali. Ha siglato il cosiddetto “5+5 agreement” tra i paesi artici e quelli asiatici per una moratoria sulla pesca nelle acque internazionali artiche in attesa di capire le dinamiche biomarine di un ecosistema in piena evoluzione. Molte specie ittiche, anche pregiate come il merluzzo artico e il pollock, stanno migrando verso l’Oceano Polare centrale in cerca di condizioni più fredde, ma pare anche meno adatte al nutrimento e alla riproduzione (un recente studio russo–norvegese del centro studi Bellona di Murmansk ipotizza l’estinzione di alcune specie), mentre l’aumento della biomassa marina generata dal riscaldamento fa prevedere che “le acque del Mare di Bering e del Mare di Beaufort si trasformeranno in zone altamente pescose e quindi a forte rischio di contese internazionali”.
In ogni occasione in cui si prendono decisioni riguardanti il Nuovo Artico, cioè dove si corre ai ripari, quasi in emergenza, rispetto alle molte situazioni inedite – come la sicurezza sulle rotte marine, la digitalizzazione della cartografia marittima, oppure gli standard della cantieristica navale polare (il Polar Code varato nel 2017) – ecco che la Cina è lì a sottolineare che è pronta a cooperare, pretendendo però di vedersi riconosciuto il diritto a esplorare e sfruttare come gli altri paesi prettamente artici.
Ma a offrire una formidabile sponda all’attivismo cinese nella regione è stata la “dottrina polare” di Vladimir Putin, il quale nel momento in cui avviava lo sviluppo di alcuni mega–progetti nella regione, soprattutto quello gigantesco della penisola di Yamal, si è visto tagliare i finanziamenti occidentali a causa delle sanzioni seguite all’annessione della Crimea nel 2014, decidendo quindi di guardare a Oriente.
Ma ad offrire una formidabile sponda all’attivismo cinese nella regione è stata la “dottrina polare” di Vladimir Putin, il quale nel momento in cui avviava lo sviluppo di alcuni mega–progetti nella regione, soprattutto quello gigantesco della penisola di Yamal, si è visto tagliare i finanziamenti occidentali a causa delle sanzioni seguite all’annessione della Crimea nel 2014, decidendo quindi di guardare a Oriente.
Yamal, che nella lingua dei Nenets, i mandriani di renne, significa “confine del mondo”, è oggi considerata come “l’Arabia saudita del Nord”. Qui si estraggono dal permafrost e offshore 675 miliardi di metri cubi di gas naturale liquido (LNG) e Putin ha promesso che entro cinque anni saranno il doppio. Il progetto Yamal–LNG vale circa 27 miliardi di dollari, compresa la costruzione del porto di Sabeta. Attraverso due banche, la Export–Import Bank e la China Development Bank, oltre che con il China Silk Road Fund e la China National Petroleum Corporation, Pechino ha investito oltre 12 miliardi di dollari nell’operazione.
L’obiettivo è di diventare stakeholder nelle infrastrutture lungo la Northern Sea Route e di garantirsi il rifornimento del gas liquido naturale artico. Non solo quello russo: proprio mentre si consumava lo scontro tra Washington e Pechino sui dazi, ad Anchorage, in Alaska, si firmava un’intesa da 43 miliardi di dollari per lo sfruttamento e l’esportazione in Cina di tutto il gas liquido naturale ricavato dai giacimenti petroliferi nell’Artico statunitense.
L’obiettivo primario per Pechino sono le nuove rotte marittime commerciali alternative a Suez. L’80 per cento del commercio marittimo mondiale è in mano alla Cina, e di questo il 90 per cento si svolge sull’asse Asia-Europa-Nord America: la via più breve è l’Artico, sempre più navigabile ed economico (il costo delle assicurazioni si è dimezzato in tre anni).

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L'80% del commercio marittimo mondiale è in mano alla Cina

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e il 90% si svolge sull'asse Asia-Europa-Nord America

Per ora la rotta più praticata è la Northern Sea Route, lungo la costa russa, ma in prospettiva la Cina pensa alla via transpolare, che sarà di due terzi più breve rispetto a quella tradizionale meridionale: 4.200 miglia marittime contro le 11.500 via Suez.
La Cina inoltre sta siglando accordi con la Finlandia (in tre anni l’export di Helsinki verso la Cina è passato dal settimo al primo posto) per la costruzione di 500 chilometri di ferrovia da Rovaniemi in Lapponia, a Kirkenes (chiamata la “nuova Rotterdam”, porto norvegese al confine russo e terminale polare europeo dei portacontainer asiatici): il progetto prevede il trasferimento delle merci su rotaia da Kirkenes fino al centro Europa attraverso il tunnel baltico, grande opera in via d’approvazione a Bruxelles.
“La differenza tra i tempi della Guerra Fredda e i nostri, è che allora, negli anni Settanta, l’Artico era il luogo della contesa, oggi è l’oggetto del contendere, quindi più pericoloso. La militarizzazione russa non è solo in chiave anti-Nato, ma è a difesa della ricchezza. L’Artico per la Russia è una polizza sulla vita”
In partnership con la società finlandese Chinia, il governo cinese sta per avviare la cablatura dell’Artico, 10,500 chilometri di fibra ottica per il collegamento sottomarino digitale Asia-Occidente in grado di accelerare i tempi nelle transazioni internazionali e gli investimenti infrastrutturali nella regione. Poiché è già in fase di conclusione da parte dell’americana Quintillion l’installazione dei cavi sottomarini dalla Gran Bretagna al Giappone, lungo Canada e Alaska, si prevede che entro il 2023 l’Artico sarà l’area con la connessione digitale più veloce del Pianeta. Ma sarà ancora un luogo di pace e cooperazione, di piliriqatigiingiq, come gli Inuit chiamano “la capacità di lavorare insieme per una causa comune”?
“La differenza tra i tempi della Guerra Fredda e i nostri”, dice Rune Rafaelsen, sindaco di Kirkenes, “è che allora, negli anni Settanta, l’Artico era il luogo della contesa, oggi è l’oggetto del contendere, quindi più pericoloso. La militarizzazione russa non è solo in chiave anti-Nato, ma è a difesa della ricchezza. L’Artico per la Russia è una polizza sulla vita”.

Rune Rafaelsen, sindaco di Kirkenes, Norvegia. La “nuova Rotterdam” al confine con la Russia è il terminale europeo dei portacontainer asiatici.

È l’altra faccia del cambiamento climatico, quella che determinerà gli equilibri mondiali. Uno studio combinato tra Stanford e l’Università di Berkeley stima che, mentre il Pil pro capite mondiale entro la fine del secolo calerà in media del 23 per cento, quello russo (così come quello finlandese, islandese e mongolo) aumenterà del 400 per cento. Nonostante l’incubo del permafrost che nell’Artico russo si scioglie in modo drammatico, mettendo a rischio la tenuta delle pipeline e liberando emissioni di metano che potrebbero sconvolgere qualsiasi previsione sull’accumulo dei gas serra e quindi sull’accelerazione del global warming, la Russia è determinata a cavalcare l’onda della Polar Rush. Vladimir Putin punta ad ancorare il suo potere neo-imperiale nel Grande Nord, e fare del Nuovo Artico il mare nostrum della Russia nel Ventunesimo secolo.

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PIL pro capite mondiale

PIL pro capite mondiale
Entro il 2100 il cambiamento climatico potrebbe influire negativamente sulla maggior parte dei paesi del mondo.
PIL pro capite russo
Solo i paesi del nord del mondo, e in particolare la Russia, potrebbero beneficiare economicamente del cambiamento climatico.

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Crescita PIL pro capite russo

Narsaq, Groenlandia. La popolazione (1503 nel 2013) è diminuita del 17% rispetto agli anni Novanta. L’economia del luogo si basa sulla pesca e sul turismo, ma negli ultimi anni la città ha dovuto affrontare la crescente disoccupazione e i suicidi giovanili, sempre più frequenti. Ci sono piani per l’avvio di una miniera d’uranio a cielo aperto sulle vicine montagne. Qualcuno spera che la ricchezza degli scavi possa salvare la città e tutta la Groenlandia nell’epoca del cambiamento climatico. Molti, però, si chiedono se valga davvero la pena correre questo rischio.
Peter Lindberg, 57 anni, è l’unica persona a Narsaq (Groenlandia) con il permesso di raccogliere la preziosa Tugtupite, un minerale, dall’altopiano del Kuannersuit. Proprio qui è prevista l’apertura di una miniera di uranio e terre rare. I funzionari della compagnia mineraria hanno promesso a Peter che potrà continuare a raccogliere le gemme anche quando la miniera sarà operativa.
Lene Kielsen Holm, antropologa e ricercatrice presso il Climate Research Center di Nuuk sostiene che l’approccio del governo nell’affrontare le potenti multinazionali minerarie sia ingenuo.
Ineqi Kielsen, 21 anni, è un membro del partito socialdemocratico e il più giovane parlamentare del mondo. Originario di Narsaq, è favorevole al progetto della miniera d’uranio a cielo aperto.
Jørgen Olesen è un ex pescatore di gamberi. Questo lavoro ha permesso per molto tempo a lui e ai suoi tre fratelli di guadagnare bene, finché nell’ultimo decennio la pescosità è diminuita e il governo ha cominciato a sovvenzionare i grossi pescherecci da traino, più proficui, a spese dei pescatori indipendenti. Jørgen ora si guadagna da vivere trasportando turisti nei fiordi della zona.
Sirio Magnabosco, The Arctic Times Project
Siamo tornati”, ha detto Putin, “con certezza possiamo affermare che il nostro potere e le nostre opportunità cresceranno con l’espansione russa nell’Artico
Un terzo dell’Artico è di proprietà russa, rappresenta il 60 per cento del Pil nazionale con l’80 per cento delle riserve di gas già esplorate e il 90 per cento di idrocarburi offshore, valore stimato due trilioni di dollari. Nell’arcipelago russo di Novaya Zemlya, a causa dello scioglimento dei ghiacci pluriannuali sono emerse nuove isole per un totale di 290 mila chilometri quadrati. Ma le rivendicazioni di Mosca, avviate in base alla convenzione Onu della Legge del Mare arrivano a inglobare altri 1,2 milioni di chilometri quadrati di fondale (pari all’estensione di Spagna e Francia messe insieme) che, secondo Putin, porterebbero il valore stimato della ricchezza oil&gas artica russa a 30 trilioni di dollari. Lungo i loro seimila chilometri di costa artica i russi hanno costruito dieci porti, di cui quello di Sabeta è il più importante. Si prevede che entro il 2025 lungo la Northern Sea Route transiteranno 80 milioni di tonnellate di merci l’anno.
La Russia ha appena varato la Akademik Lomonosov, centrale atomica galleggiante da 21 mila tonnellate destinata ad alimentare le stazioni estrattive e soprattutto quelle militari nella regione, dove Mosca ha attivato circa venti nuove basi (alcune abbandonate con il crollo dell’Urss), mentre a Occidente, a ridosso dei confini Nato nella penisola di Kola, ha ammassato 200 navi da guerra, 20 sommergibili atomici e 1830 testate nucleari.

Navi da guerra russe

Sommergibili atomici russi

Testate nucleari russe

Nel marzo del 2017 Putin e il ministro della Difesa Sergej Šojgu hanno inaugurato la base Arkticheskiy Trilistnik, Trifoglio Artico, nella Terra di Francesco Giuseppe, latitudine 80 gradi Nord: un complesso di 14 mila metri quadrati, dipinto con il tricolore russo, dotato di una pista riscaldata e articolato come i moduli della stazione spaziale internazionale e composto da tre gigantesche “astronavi” che ospitano 150 uomini addestrati alla guerra bianca, in grado di sopravvivere per diciotto mesi senza rifornimenti: “Siamo tornati”, ha detto Putin, “con certezza possiamo affermare che il nostro potere e le nostre opportunità cresceranno con l’espansione russa nell’Artico”.
Nel marzo del 2017 Putin e il ministro della Difesa Sergej Šojgu hanno inaugurato la base Arkticheskiy Trilistnik, Trifoglio Artico, nella Terra di Francesco Giuseppe, latitudine 80 gradi Nord: un complesso di 14 mila metri quadrati, dipinto con il tricolore russo, dotato di una pista riscaldata e articolato come i moduli della stazione spaziale internazionale e composto da tre gigantesche “astronavi” che ospitano 150 uomini addestrati alla guerra bianca, in grado di sopravvivere per diciotto mesi senza rifornimenti: “Siamo tornati”, ha detto Putin, “con certezza possiamo affermare che il nostro potere e le nostre opportunità cresceranno con l’espansione russa nell’Artico”.
La più preoccupata è la Norvegia. Non viene meno alla tradizionale politica di buon vicinato con la Russia che ha permesso nel 2010 di firmare uno storico trattato a Murmansk (nel nuovo clima geopolitico artico sembra un secolo fa); tuttavia Oslo fa sentire forte la propria voce in sede Nato per un maggiore presidio dell’Artico scandinavo e manifesta inquietudine rispetto all’atteggiamento di Mosca, e a quello della stampa russa, rispetto allo status dell’arcipelago delle Svalbard, l’area più critica della regione dal punto di vista della sicurezza. Il trattato del 1928 stabilisce che le Svalbard sono territorio norvegese, ma le nazioni firmatarie, compresa la Russia (e l’Italia) hanno il diritto all’uso delle isole a fini esclusivamente scientifici. Ora Mosca mette in dubbio l’autorità dei norvegesi nello sfruttamento dei giacimenti offshore, ritenendo quei fondali in continuità con il territorio delle Svalbard.
L’attività Nato nel mare di Barents è intensa. Incrocia ininterrottamente la Marjata IV, la più grande e sofisticata nave-spia in dotazione dal 2016 all’Alleanza, costruita apposta per fare da sentinella ai sommergibili russi davanti alla penisola di Kola, la fortezza nucleare della Flotta del Nord (dove avvenne la tragedia del Kursk il 12 agosto del 2000). Marjata guarda, ascolta e archivia tutto quel che accade e si dice nell’intero bacino artico.

La Marjata IV della Nato

Poi c’è l’isola di Vardø: sul plateau gli americani hanno installato un sistema radar in grado di dominare il mare di Barents, a 70 chilometri dalle basi russe. Si chiama Globus 3, un sistema d’allarme antimissile, ma secondo i russi si tratta addirittura del più avanzato sistema di difesa antimissile del Pentagono, capace di sgonfiare la capacità di “second strike” dei loro sommergibili nucleari. Putin sa che le forze armate convenzionali russe sono decisamente inferiori a quelle americane; l’attivazione di uno scudo antimissile sull’uscio di casa viene visto come una minaccia diretta a un settore nel quale ritiene di essere ancora temibile: la deterrenza nucleare. Ma la Norvegia, di fronte alla crescente attività delle navi da guerra russe, intensifica le manovre anche sulla terraferma, ospitando contingenti di marines che si alternano ogni sei mesi.
Il coinvolgimento militare americano nell’Artico non appare tuttavia sostenuto da una visione strategica di Washington, riluttante a confrontarsi con l’intraprendenza di Pechino e Mosca. Già con Barack Obama – che pure fu il primo presidente americano ad aver visitato territori dell’Alaska oltre il circolo polare artico con l’intento di lanciare un messaggio al mondo – si era creato all’interno del Dipartimento di Stato un “partito polare” allarmato della disparità d’investimento geopolitico: se l’unità di misura di potenza artica è quella dei rompighiaccio a propulsione nucleare, la dotazione Usa è di tre contro i 40 russi.

“Una cosa sappiamo per certo. Che questa fetta di mondo è la priorità assoluta per una sola delle forze in campo: la Russia”

Una delle voci più autorevoli nel richiamare maggiori investimenti degli Stati Uniti nella partita artica è quella dell’ammiraglio James Stravridis , già comandante supremo delle forze alleate in Europa e il più autorevole analista americano di sicurezza globale (oltre che esperto di High North, avendo vissuto la Guerra Fredda da protagonista sul campo di battaglia come i personaggi di Caccia a Ottobre Rosso di Tom Clancy): “In tutti i mari del mondo si sono combattuti scontri epici, alcuni hanno conosciuto terribili massacri. L’unica eccezione, per ora, è l’Oceano Artico”, dice l’ammiraglio. “Una cosa sappiamo per certo: che questa fetta di mondo è la priorità assoluta per una sola delle forze in campo: la Russia. Ha un piano geopolitico chiaro e farà di tutto, sta facendo di tutto, per essere l’unica superpotenza artica”.
Ma anche l’Amministrazione Trump sembra rinviare una decisione. Per ora il piano è quello di sfruttare al massimo le risorse petrolifere in Alaska per ripianare il budget federale e consolidare l’autosufficienza energetica nazionale. Donald Trump ha autorizzato permessi di trivellazione, a partire dal 2019, su un’area di 162 mila ettari nel più grande parco naturale del Paese, l’Arctic National Wildlife Refuge, santuario per molte specie protette come il caribù. Il presidente ha poi cancellato il piano di tutela ambientale marina dell’Artico dell’era Obama concedendo nuove estrazioni offshore nella North Slope, dove, con nuove tecnologie, si pensa di ricavare in sicurezza 40 miliardi di tonnellate di petrolio da due formazioni mai esplorate. Sappiamo che Trump sta privilegiando lo scacchiere asiatico-pacifico, ma sappiamo anche che è capace di improvvisi scarti. Molti si aspettano che rompa il ghiaccio e decida di avventurarsi nell’ultima delle ultime frontiere.
Marzio G. Mian

Marzio G. Mian

Fondatore di The Arctic Times Project

Giornalista, ha fondato con altri giornalisti internazionali la società no profit The Arctic Times Project con sede negli Stati Uniti. È stato per sette anni vicedirettore di Io donna. Ha realizzato inchieste e reportage in 56 paesi. Nel 2017 ha pubblicato il libro “Artico. La battaglia per il Grande Nord” (Neri Pozza).