Il Futuro
dei Microchip

Sono ovunque: nelle nostre automobili, nei nostri telefoni e anche nelle nostre lavatrici. Senza di loro non potremmo portare avanti molte delle nostre attività quotidiane allo stesso modo. Ma sono assemblati da pochissimi produttori. E proprio per questo, il futuro di interi paesi dipenderà da chi uscirà vincitore nella gara dei semiconduttori.

C’è un momento iconico della presidenza di Donald Trump, un po’ rimosso dall’immaginario collettivo, che segna indelebilmente gli albori del conflitto tecnologico che da allora contrappone gli USA alla Cina. Siamo nel giugno 2018, nel Wisconsin, dove si inaugurano i lavori di una nuova mega-fabbrica di elettronica. Col fare impacciato di chi non sa bene come si maneggia un badile, il tycoon newyorkese rivoltava la terra nel cantiere per avviare i lavori di scavo. A fianco a lui il miliardario Terry Gou, l’investitore nonché fondatore della società taiwanese che ha risposto alla chiamata di Trump per riportare negli USA la produzione tecnologica. Un presidente-tycoon, nel Midwest, che spala quindi la terra per riaffermare la propria leadership tecnologica globale.

Una rappresentazione paradossale di quanto la tecnologia sia un elemento centrale nella politica internazionale. Il suo miglioramento permette lo sviluppo economico degli Stati, modernizza i metodi di produzione, potenzia le capacità militari delle superpotenze. Non solo. Le filiere, le cosiddette supply chain che ne permettono la creazione, agiscono come potenti collanti strategici, cementando i rapporti tra alleati, oppure inasprendo la competizione tra rivali. E tra le tecnologie che stanno polarizzando il mondo, un posto di indiscusso rilievo lo hanno i semiconduttori.

Guido Alberto Casanova

Giornalista e analista, collabora con ISPI e si occupa di Asia e in particolare della relazione fra commercio e tecnologia.

Alberto
Prina Cerai

Editorial Research Assistant, Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM). Si occupa inoltre di critical raw materials e tecnologia.

I semiconduttori sono ovunque e non possiamo farne a meno. E ci sono almeno tre motivi per cui la loro produzione  è diventata un elemento chiave della politica internazionale. Innanzitutto, la loro ubiquità: dai computer agli smartphone, passando per le auto elettriche, supercalcolo e armamenti. Sono quindi asset strategici per imprese e potenze mondiali, ma anche estremamente complessi da produrre. Infatti ci sono solo pochi paesi al mondo, soprattutto in Asia, che sono in grado di partecipare alle supply chain di questo settore attorno al quale sta emergendo un intenso confronto geopolitico tra Cina e USA. C’è infine un terzo e ultimo motivo per cui noi in Europa dobbiamo essere molto interessati a questo tema. Dalla nostra capacità di inserirci in questa competizione, senza rimanerne schiacciati, dipenderà se rimarremo relegati ai margini dell’azione o se potremo invece essere attori di primo piano.

Un wafer da 12 pollici viene esposto presso la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) a Xinchu, Taiwan (Fonte: Reuters)

I semiconduttori sono ovunque e non possiamo farne a meno. E ci sono almeno tre motivi per cui la loro produzione  è diventata un elemento chiave della politica internazionale. Innanzitutto, la loro ubiquità: dai computer agli smartphone, passando per le auto elettriche, supercalcolo e armamenti. Sono quindi asset strategici per imprese e potenze mondiali, ma anche estremamente complessi da produrre. Infatti ci sono solo pochi paesi al mondo, soprattutto in Asia, che sono in grado di partecipare alle supply chain di questo settore attorno al quale sta emergendo un intenso confronto geopolitico tra Cina e USA. C’è infine un terzo e ultimo motivo per cui noi in Europa dobbiamo essere molto interessati a questo tema. Dalla nostra capacità di inserirci in questa competizione, senza rimanerne schiacciati, dipenderà se rimarremo relegati ai margini dell’azione o se potremo invece essere attori di primo piano.

Fonte: Visual Capitalist, Statista, Detroid Free Press

La tecnologia dei microchip

La tecnologia
dei microchip

I semiconduttori sono il risultato di un processo industriale molto complesso, con migliaia di passaggi e fornitori sparsi in tutto il mondo.

I semiconduttori, nella propria forma più naturale, sono dei materiali della tavola periodica degli elementi, la cui struttura molecolare, a seconda delle circostanze, consente di comportarsi come un conduttore di elettricità oppure come un isolante. A seguito di un complicato processo di lavorazione, il semiconduttore (normalmente il silicio cristallino) è trasformato in un complesso circuito integrato, detto microchip, che funge da “cervello” per tantissimi dispositivi elettronici di uso quotidiano e industriale, civile o militare.

La filiera produttiva di un semiconduttore è uno dei  processi industriali più complessi mai concepiti: dal design al packaging, passando per la manifattura, servono più di 1000 passaggi e 300 materiali tra wafer, gas e prodotti chimici. La produzione si basa perciò su un ecosistema di aziende, centri di ricerca e fonderie fortemente globalizzato e ad alta specializzazione. A monte, vi sono le aziende che progettano l’architettura dei microchip fornendone poi le licenze sulla proprietà intellettuale (IP) a società fabless, come l’americana Nvidia. Queste disegnano il circuito integrato grazie al supporto di software EDA (Electronic Design Automation) e ne validano le funzionalità. I disegni vengono poi a loro volta trasferiti nelle fonderie (fabs), dove macchinari a litografia ultravioletta incidono i semiconduttori sui wafer di silicio. Questi macchinari sono estremamente complessi e realizzati da poche società al mondo, come  l’olandese ASML. Infine, a valle, i microchip vengono testati in strutture dedicate (OSAT) e assemblati  nell’elettronica di consumo, o in supporto alle tecnologie più avanzate.

Fonte: Visual Capitalist

Lo stadio di avanzamento tecnico di un microchip è solitamente indicato dalla distanza tra i suoi transistor, ovvero quei dispositivi attraverso la cui modulazione sono gestiti i circuiti elettronici del semiconduttore. 50 anni di continua innovazione l’hanno portata nella soglia dei nanometri (nm), ossia milionesimi di millimetro. Ad oggi le società più innovative e all’avanguardia nel settore, come la taiwanese TSMC e la sudcoreana Samsung, hanno iniziato la produzione di semiconduttori del calibro di 3 nm, che è una misura appena più larga di un filamento di DNA.

Oggi su un microchip sono presenti fino a 100 miliardi di transistor: quanto più è miniaturizzato, tanto migliori sono l’efficienza e le prestazioni offerte.

Per decenni l’innovazione tecnologica ha seguito un progresso esponenziale, che ha permesso di raddoppiare il numero di transistor ogni 24 mesi. Questa osservazione, conosciuta come “legge di Moore” , è stata a lungo il paradigma per valutare l’evoluzione del settore. La legge ha però oggi raggiunto i propri limiti predittivi, a causa delle difficoltà fisiche e ingegneristiche della miniaturizzazione. Per questo motivo, si è cominciato a sperimentare nuovi tipi di architettura dei transistor, che a parità di nanometri renderebbero più efficienti i semiconduttori. Samsung, ad esempio, ha introdotto i transistor gate-all-around (GAA FET) che consentono una minor dispersione di elettricità rispetto agli attuali transistor “a pinna” (FinFET), quindi una miglior efficienza energetica.

Fonte: Rielaborazione ISPI su dati Financial Times

Le tipologie di  semiconduttori non sono un elemento secondario. Alcuni nodi (termine con cui nel settore si classificano i microchip in base ai rispettivi nanometri) si adattano meglio a certe industrie invece che altre, sia per caratteristiche tecniche che per costi di produzione. Ad esempio, nell’industria automobilistica i microchip più adatti sono quelli da 90 nm, poiché si tratta di un nodo che unisce affidabilità e costi contenuti. Le alte prestazioni offerte invece dai nodi da 5 o 7 nm sono più adatti a tecnologie come il cloud computing, gli smartphone o l’intelligenza artificiale.

Complessivamente, la produzione di microchip si appoggia su circa 16.000 sub-fornitori, mentre i semiconduttori valicano 70 confini e 50 cosiddetti “colli di bottiglia”, prima di arrivare al consumatore finale. L’industria dei semiconduttori è stata così un apripista dei processi di globalizzazione, che l’hanno poi segmentata in hub di innovazione e produzione, garantendo un flusso di competenze tecniche e condivisione di standard tecnologici che hanno reso efficiente l’intera filiera.

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subfornitori
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confini attraversati
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"colli di bottiglia"

Fino allo scoppio della pandemia, si erano consolidate due macro tendenze: da una parte la rivoluzione fabless, ovvero la progressiva affermazione di un modello di business orientato al segmento a più alto valore aggiunto, quello del design; dall’altra, la progressiva concentrazione di mercato del segmento foundry, con pochissime aziende in grado di sostenere gli investimenti e i costi operativi della legge di Moore. Alla testa del mercato dei microchip, dopo i ritardi di Intel, sono rimasti solo Samsung e soprattutto TSMC.

Fonte: elaborazione degli autori. Il grafico visualizza idealmente qual è il percorso della supply chain, non descrive un percorso preciso seguito da ogni microchip

In questo quadro, secondo le stime della Semiconductor Industry Association (SIA) gli USA detengono la maggior parte delle quote di mercato per il segmento design (47%), EDA e IP (74%), investendo la maggior parte dei profitti in ricerca e sviluppo. Nel 2021 le aziende fabless americane (Qualcomm, Broadcomm, Nvidia, AMD) contavano il 60% di tutte le vendite globali.    

Proprio per il consolidamento di questo modello di business negli USA, con il tempo soltanto Intel, Texas Instruments e GlobalFoundries hanno mantenuto ancora fonderie di proprietà, mentre il segmento foundry si è progressivamente consolidato tra Taiwan, Corea del Sud, Cina e Giappone, che insieme detengono il 75% del mercato. Qui, poche società hanno in mano la produzione dei semiconduttori, fabbricandoli per conto terzi (come TSMC) o anche per se stesse (come Samsung). Le stime variano a seconda della tipologia: TSMC e Samsung controllano il mercato sotto i 7 nm, mentre sopra i 10 nm anche la Cina (in particolare con la controllata statale SMIC) è un importante hub di produzione, oltre ad essere il principale mercato di riferimento.    

Infine, il segmento mid-stream è dominato dai fornitori giapponesi e coreani, specializzatisi nella produzione di wafer di silicio e di materiali ad uso industriale per la manifattura e il packaging. L’Europa è un attore chiave per quanto riguarda i macchinari per la fabbricazione, con l’olandese ASML, leader nella fornitura di strumenti a litografia ultravioletta.

Fonte: Capital IQ; SIA Factbook 2022; Boston Consulting Group analysis

 Questa segmentazione ha fatto sì che, dal 1990 al 2020, gli USA abbiano perso oltre il 25% delle quote di mercato nella produzione di microchip all’avanguardia. Una emorragia che è però ora percepita come un rischio per l’ecosistema dell’innovazione: già nel 2010 Andrew Grove, fondatore di Intel, aveva profetizzato che cedere il passo ai concorrenti asiatici avrebbe finito per minacciare la leadership tecnologica statunitense. Uno scenario che, in un contesto di crescente rivalità con la Cina, rischia di minacciare la sicurezza nazionale.

Lo scontro tra Stati Uniti e Cina

Lo scontro tra
Stati Uniti e Cina

La politica degli Stati Uniti sui microchips ha due obiettivi: limitare l’acquisizione di tecnologie avanzate da parte della Cina e potenziare la propria produzione nazionale.

La genesi della competizione tecnologica con la Cina risale all’amministrazione Trump, quando negli USA è maturata la convinzione che l’interdipendenza con il rivale fosse divenuta un inaccettabile rischio. Washington aveva realizzato che la sua innovazione stava infatti contribuendo all’ascesa di Pechino, anche in settori tecnologici sensibili per la difesa.

Trump ha però capito che questo ruolo gli dava anche il potere di ostacolarla, sfruttando i colli di bottiglia industriali in cui le società USA detengono una posizione dominante. Consolidando ed espandendo nuove restrizioni, come l’obbligo di licenza e i controlli sull’export, l’ufficio per la sicurezza industriale del Dipartimento del Commercio statunitense ha cercato di limitare l’accesso della Cina alle componenti più avanzate della tecnologia dei semiconduttori. Primo obiettivo: soffocare le ambizioni del campione cinese delle telecomunicazioni, Huawei, considerato, insieme ad altre società cinesi come SMIC, un rischio per la sicurezza nazionale per via del loro legami col Partito comunista.

Un ricercatore che indossa una tuta per camera bianca che mostra un wafer nel laboratorio di Shanghai Microsemi Semiconductor Co., Ltd. a Shanghai, Cina (Fonte: Oriental Image via Reuters Connect)

La strategia americana è però anche rivolta al potenziamento delle capacità industriali nazionali. L’approvazione del CHIPS and Science Act (CHIPS Act) nell’agosto 2022 ha rappresentato un momento storico per gli USA. Come sperimentato dall’industria automobilistica, la crisi pandemica aveva infatti portato a una improvvisa penuria di microchip. In quel momento, la dirigenza statunitense ha percepito tutta la vulnerabilità della propria base industriale, e si è trovata così a dover ripensare la sicurezza delle proprie forniture e a dover tamponare l’emorragia di capacità produttive verso paesi come Taiwan e la Corea del Sud . Una sensazione di vulnerabilità ulteriormente acuita dal fatto che sull’approvvigionamento dalle fonderie asiatiche incombono l’aumento delle potenzialità militari della Cina e la sua accresciuta assertività nella regione.

Fonte: TrendForce

Nella visione dei legislatori americani, perdere l’accesso ai semiconduttori per carenza di know-how produttivo domestico o in virtù dei rischi geopolitici porterebbe a un disastroso declino dell’ecosistema tecnologico USA. Sul CHIPS Act sono state quindi riposte molte aspettative: prima di tutto è chiamato a ridurre la probabilità che futuri shock esterni, come disastri naturali o escalation militari, possano mettere a repentaglio la base industriale statunitense; poi dovrebbe rafforzare la competitività della filiera domestica rispetto ai concorrenti asiatici; infine, assicurare che l’innovazione dei processi di fabbricazione (come nelle nuove frontiere del packaging) avvenga negli USA.

A livello operativo il CHIPS Act prevede $39 miliardi di incentivi sotto forma di credito d’imposta al 25% per attrarre nuovi investimenti nel segmento foundry,. Si stima infatti che il divario di costi di capitale con le rivali asiatiche sia  tra il 20 e il 40%. Inoltre, la legge cerca di indirizzare gli investimenti privati: un’importante clausola impone infatti che, per ricevere incentivi, le aziende non debbano investire in nuove capacità produttive in quei paesi che la legge americana considera un rischio per la sicurezza nazionale. Ovvero in Cina.

Fonte: Semiconductor Industry Association, “2022” State of the U.S. Semiconductor Industry”

Ad oggi, sono stati confermati circa $200 miliardi di investimenti privati negli USA entro il 2030, con 23 nuove strutture di produzione e il potenziamento di 9 esistenti. Tra i più significativi, 4 impianti di TSMC e Intel in Arizona, un impianto di Samsung in Texas e altri investimenti in strutture per la fornitura di materiali (strumentazione, wafer, e prodotti chimici). L’enfasi è rimasta sulle attività manifatturiere, dato che nei segmenti design e software EDA gli USA hanno già i loro maggiori punti di forza, attorno ai quali è stata costruita una vera e propria weaponization del dominio tecnologico ai danni della Cina.

Arriva Biden

Arriva Biden

Ora gli Stati Uniti vogliono ricostruire la filiera di produzione fra tecno-democrazie, isolando la Cina.

L’arrivo di Joe Biden doveva rappresentare una svolta dopo gli anni burrascosi dell’unilateralismo di Trump, promettendo un ritorno a un coordinamento multilaterale con gli alleati. Nel confronto con la Cina l’attuale governo ha cercato da subito di istituire, assieme ai propri alleati, restrizioni collegiali e più incisive per le tecnologie critiche come i semiconduttori. “Giardino piccolo, recinzione alte  , come ha ripetuto anche recentemente il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.

I colli di bottiglia per le tecnologie fondamentali devono essere all’interno, e la protezione deve essere alta perché i competitor non devono essere in grado di sfruttare le tecnologie degli USA e degli alleati per minarne la loro stessa sicurezza.
I colli di bottiglia per le tecnologie fondamentali devono essere all’interno, e la protezione deve essere alta perché i competitor non devono essere in grado di sfruttare le tecnologie degli USA e degli alleati per minarne la loro stessa sicurezza.

Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan (Fonte: Leandro Monteiro)

In questa direzione, Washington ha perseguito il riallineamento della propria politica con quella dei partner storici nella regione. Con l’iniziativa “Chip 4”, in particolare, Biden ha tentato di multilateralizzare il confronto tecnologico con Pechino. Lo scorso marzo, gli USA hanno così proposto a Taiwan, Giappone e Corea del Sud di istituire un meccanismo di consultazione per ricostruire insieme una filiera che sia meno vulnerabile agli shock esterni. L’obiettivo è chiaro: rimodellare l’industria dei semiconduttori tra “tecno-democrazie” e isolare contestualmente la Cina.

Tuttavia, prima ancora che l’iniziativa potesse prendere slancio, proprio quest’estate il settore ha subito uno scossone che ha cambiato in profondità la percezione statunitense del confronto tecnologico.    

 Analizzando un microchip prodotto da SMIC, a luglio alcuni ricercatori canadesi sono giunti infatti alla conclusione che la società cinese abbia acquisito le capacità per produrre nodi da 7 nm già nel 2021. Fino a quel momento, si credeva che la Cina fosse ferma alla produzione di semiconduttori da 14 nm. Rimane inoltre ancora poco chiaro come l’azienda cinese sia riuscita ad accedere alla litografia necessaria per raggiungere un simile risultato, soprattutto considerando le restrizioni americane.

Un ricercatore inserisce un semiconduttore dentro una scheda di interfaccia durante un lavoro di ricerca per creare e sviluppare un prodotto a semiconduttore presso il centro di ricerca Tsinghua Unigroup a Pechino (Fonte: Reuters)

Va da sé che anche per Pechino l’obiettivo sia speculare, ovvero affrancarsi dall’uso di tecnologia occidentale. Il piano industriale lanciato nel 2015 e noto come Made in China 2025 mira a localizzare nel paese la produzione del 70% del fabbisogno nazionale. Centinaia di miliardi di dollari sono stati investiti per attrarre aziende del settore, creare campioni tecno-industriali cinesi e promuovere la ricerca scientifica in questo campo.

Anche se la Cina rimane comunque il primo mercato al mondo per i semiconduttori, le società cinesi sono in grado di provvedere solo in piccola parte alla domanda: nel 2021 il paese importava $432 miliardi di microchip, mentre la produzione nazionale soddisfaceva solo il 16% del fabbisogno. Si tratta perlopiù di nodi maturi, ovvero usati per settori industriali come quello automobilistico o per gli elettrodomestici, e non per le tecnologie più dirompenti come l’intelligenza artificiale. La scoperta dei ricercatori canadesi ha però messo in dubbio lo status quo, aprendo alla possibilità che la Cina stia accelerando verso la produzione dei microchip più avanzati.

Dopo la scoperta, Biden ha varato una più aspra politica di confronto tecnologico con la Cina. Investire nella propria industria (come fatto col CHIPS Act) e coordinarsi coi partner (come proposto col Chip 4) era necessario, ma non più sufficiente. Il 7 ottobre, Biden ha così annunciato un nuovo regolamento sull’export che vieta alle società statunitensi di vendere i macchinari necessari per la produzione di nodi inferiori ai 14 nm alle fonderie cinesi.

Il confronto geopolitico ha distorto l’intero mercato. Prima, assemblavi un prodotto e potevi venderlo in tutto il mondo.

Il confronto geopolitico ha distorto l’intero mercato.

Amministratore delegato di TSMC, C.C. Wei (Fonte: Reuters)

L’interventismo radicale di Washington è poi evidente anche per un secondo genere di restrizioni introdotte: il blocco delle esportazioni verso la Cina delle tecnologie necessarie per lo sviluppo dei supercomputer e dell’intelligenza artificiale, quindi anche i semiconduttori più avanzati. Il divieto però non si limita ai soli chipmaker americani. Con il ricorso alla Foreign Direct Product Rule, concepita dall’amministrazione Trump per soffocare Huawei, il blocco viene esteso a tutte le società non statunitensi che però fanno uso di IP, software o macchinari che impiegano tecnologia americana. Data l’eccezionale predominanza in alcuni di questi campi, il regolamento deciso unilateralmente da Washington ha un’applicazione extraterritoriale estremamente estesa e che avrà pesanti ripercussioni sull’industria globale dei semiconduttori. Con grande preoccupazione di molti partner degli USA. Come ha affermato il CEO della taiwanese TSMC, C.C. Wei, le rivalità e tensioni geopolitiche tra le due superpotenze stanno “distorcendo” il mercato dei semiconduttori, minacciando l’efficienza e la produttività dell’industria.

Un multipolarismo tecnologico?

Un multipolarismo
tecnologico?

Nonostante la presenza Statunitense nella progettazione, la produzione di microchip è oggi impossibile senza l'apporto di paesi come Taiwan o la Corea del Sud.

Il 6 dicembre Joe Biden si è unito a Morris Chang, fondatore di TSMC, per inaugurare i nuovi impianti di produzione dell’azienda taiwanese in Arizona. Il complesso da $12 miliardi per la produzione di microchip da 5 nm è uno dei più importanti investimenti stranieri negli USA. Ciononostante, Taiwan non ha alcune intenzione di cedere il proprio predominio nella manifattura di semiconduttori, e si sta invece muovendo per mantenersi al centro dell’innovazione e della geopolitica.    

Un wafer da 12 pollici alla Taiwan Semiconductor Manufactoring Co. di Hsinchu (Fonte: Reuters)

Qualsiasi nuova fonderia inaugurata in USA, Giappone o Germania dovrà infatti sempre rimanere un passo indietro rispetto alla tecnologia gelosamente custodita nelle sedi di TSMC a Hsinchu e Taichung. Qui si continuerà a spostare la frontiera oltre l’attuale soglia dei 3 nm, contando sui massicci investimenti in capitale garantiti dal consolidamento di un modello di business che già ora attrae finanziamenti da clienti, come Apple, Qualcomm e Nvidia. Il 90% dei microchip all’avanguardia prodotti sull’isola finiscono infatti nelle filiere di queste multinazionali, mentre i clienti cinesi contano sempre meno: già dal 2020, infatti, HiSilicon, la divisione di design di semiconduttori di Huawei, non è più tra i principali partner commerciali di TSMC.

La centralità di TSMC nella filiera globale dei semiconduttori, su cui si regge un indotto economico da trilioni di dollari, è poi una garanzia per la sicurezza e l’integrità politica di Taiwan. Assicurazione soprattutto nei confronti dei propositi di Pechino, desiderosa di riprendersi un’isola che continua a considerare come parte del proprio territorio nazionale.

Fonte: Elaborazione ISPI su dati TrendForce

Ma Taiwan non è l’unico hub tecnologico dell’Asia orientale. Anche la Corea del Sud infatti possiede le capacità tecnologiche e industriali per produrre i nodi più avanzati. Battendo sul tempo TSMC, Samsung è diventata la prima società a iniziare la fabbricazione dei microchip da 3 nm. I semiconduttori sono infatti un elemento chiave dell’economia sudcoreana e, col 16,8% di tutto l’export, ne sono uno dei motori principali. Ma per Seul la Cina rappresenta un partner difficilmente sostituibile, dato che assorbe circa il 60% della sua produzione. I due paesi sono quindi legati a doppio filo, tanto che, negli anni, Samsung ha investito diversi miliardi per la realizzazione di capacità produttive direttamente nella Repubblica Popolare.

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export coreano
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Per La Corea del Sud, le restrizioni imposte dagli USA questo autunno sono state quindi una vera e propria doccia fredda. Nonostante l’azienda avesse già allocato fondi per espandersi nel mercato statunitense, senza le entrate dai clienti cinesi Samsung non potrebbe mantenersi competitiva a livello globale. Così, per non soffocare il campione tecnologico di un importante alleato, Biden ha dovuto concedere un’esenzione di un anno alla società sudcoreana. Esenzione che viene però interpretato più come un ultimatum per ritirarsi definitivamente dalla Cina.

Fonte: Gartner, IHS, Strategy Analytics, McKinsey

Il Giappone è poi un altro tassello chiave, anche se nel tempo il suo ruolo è gradualmente mutato. Se fino agli anni ‘80 deteneva oltre la metà del mercato globale dei semiconduttori, oggi invece la sua quota è scesa appena al 10%. Il paese è comunque uno degli attori più rilevanti poiché si è inserito in alcune nicchie del segmento mid-stream, come ad esempio la fornitura di prodotti chimici estremamente puri e di macchinari per la fabbricazione dei microchip. Le società giapponesi eccellono nella produzione di wafer di silicio, così come nella produzione di componenti meccaniche indispensabili per il processo di incisione. Sono infatti giapponesi molti dei fornitori su cui TSMC fa affidamento per le proprie fonderie.

Tra questi svetta in particolare Tokyo Electron, che da sola possiede il 90% del mercato mondiale dei macchinari per l’incisione di circuiti tramite speciali composti chimici. Visto il ruolo che Tokyo Electron riveste nel mercato cinese, gli USA hanno cercato di convincere la controparte giapponese a coordinare restrizioni comuni per limitare la vendita di macchinari per la fabbricazione di nodi da 5 nm ai clienti cinesi. Ma l’improvvisa accelerata di Biden lo scorso autunno ha spiazzato il Giappone, che si è mostrato a lungo riluttante ad adottare misure simili.

Fonte: The Observatory of Economic Complexity

E l’Europa? Il ruolo dell’Europa al tavolo delle potenze tecnologiche è assicurato da una società olandese. ASML è tra le prime aziende di semiconduttori europee, con un 12% di del volume di affari del settore circa 14 miliardi di fatturato nel 2020. Ma soprattutto, l’azienda olandese è oggi l’unico produttore al mondo di macchinari che usano la litografia ultravioletta estrema (EUV) nella fabbricazione dei microchip. L’EUV è una tecnologia complessa, realizzata in collaborazione con Zeiss, leader tedesco nell’ottica, e altri 4000 fornitori, di cui molti europei. ASML l’ha sviluppata in partnership con istituzioni di ricerca e il settore privato. Non è un caso, infatti, che tra i suoi investitori vi siano Intel, Samsung e TSMC, le tre aziende che per prime sono riuscite a sfondare il muro dei 10 nm. I macchinari EUV richiesti da una fonderia avanzata costano circa $200 milioni e richiedono 40 container, 20 camion e 3 Boeing 747 per essere spediti all’utilizzatore finale.

Ecco il percorso compiuto dalla luce all’interno del macchinario Twinscan NXE: 3400B per la litografia ultravioletta di ASML (Fonte: ASML/Reuters)

Il mercato di ASML è però principalmente asiatico, a dimostrazione dell’assenza di fonderie avanzate nel nostro continente. Un vulnus che la Commissione europea ha individuato come critico: da qui l’esigenza di portare la quota di mercato europea dal 10 al 20% entro il 2030 e di costruire “una fab da 2 nm”. L’European Chips Act vuole creare le condizioni per colmare questo gap, rilassando le regole sugli aiuti di Stato e attirando nuovi investimenti privati nei segmenti in cui l’UE è più indietro, come design e manifattura dei nodi più avanzati.    

Fonte: Financial Times e SEMI

Il mercato europeo non conterà ancora molto probabilmente per ASML, ma ASML conta moltissimo per l’Europa. L’azienda ricopre “una posizione strategica” nella catena del valore dei microchip, un collo di bottiglia che anche gli USA vogliono usare per bloccare l’ascesa di Pechino attraverso l’allineamento del governo olandese alle restrizioni statunitensi. Peccato che il CEO di ASML abbia ricordato come, mentre la sua impresa ha bloccato la vendita dei macchinari più avanzati sin dal 2019, diversi competitor americani abbiano proseguito il business in Cina ben oltre.

A fine gennaio, dopo mesi di lunghe e difficili trattative, Giappone e Olanda hanno raggiunto un accordo con gli USA per allinearsi alle sanzioni americane contro Pechino, con probabili restrizioni all’export di macchinari per fabbricare i microchip più avanzati o comunque sotto ai 14 nm. Per ora i dettagli non sono stati resi pubblici. L’accordo, che comporterà perdite ancora difficili da quantificare per ASML e Tokyo Electron, renderà più difficoltoso per la Cina accedere agli strumenti necessari per produrre i semiconduttori all’avanguardia, ma molto probabilmente incentiverà Pechino ad aumentare gli sforzi per sviluppare capacità tecnologiche proprie.

Un decoupling difficoltoso?

Un decoupling
difficoltoso?

Gli investimenti pubblici nel settore si sono moltiplicati, ma raggiungere l'autosufficienza tecnologica nazionale resta molto difficile.

“Il nostro problema fondamentale è che il nostro principale partner commerciale è anche il nostro principale competitor”. Così Chris Miller, autore del libro Chip War, riporta una conversazione anonima intercorsa nel 2021 tra un alto funzionario della Casa Bianca e un dirigente di un’azienda di microchip americana. Non c’è forse dichiarazione che possa meglio riassumere la posta in gioco tra USA e Cina.

La profonda interdipendenza tecnologica e i vantaggi commerciali di accedere al mercato cinese rendono quindi il decoupling statunitense una prospettiva operativamente difficoltosa. Intel e Qualcomm dipendono ad esempio in buona parte dalle vendite in Cina e faticherebbero a trovare, nel breve termine, clienti alternativi.

Un dipendente è riflesso in un wafer nella azienda tedesca di semiconduttori Infineon a Ratisbona (Fonte: Reuters)

In mercati e segmenti più maturi, come quelli dell’elettronica di consumo e del packaging, la diversificazione potrebbe essere forse più semplice, come di recente annunciato da Dell. Ma i settori ad alta intensità di capitale e know-how rimangono presidiati da ASML e TSMC, visto che l’ingresso di una diretta rivale che possa scalfirne le posizioni di mercato è per ora improbabile. Perseguire una strategia di cooptazione delle società d’avanguardia, tramite investimenti esteri, come auspicato dal Chips Act europeo o dall’omologo statunitense, resta il percorso più realistico. 

Il sostegno all’industria dei semiconduttori è diventato però comunque prioritario per USA, Cina, Europa, Giappone, India, che stanno facendo ricorso a generose sovvenzioni per promuovere le proprie capacità produttive. Ma l’intervento dei governi presenta comunque dei limiti.

Fonte: Elaborazione ISPI su dati OECD, ITIF, siti governativi, SIA e BCG

Questa corsa al reshoring rischia di risolversi in un grande spreco di denaro pubblico, se l’obiettivo è quello dell’autosufficienza tecnologica. Per quanto il concetto sia ormai diventato onnipresente nel dibattito pubblico, nessun paese potrà rinchiudersi in una propria fortezza tecnologica. Dal front-end al back-end, l’industria dei microchip comprende migliaia di processi industriali e di beni intermedi, per i quali servono conoscenze tecniche specializzate e gelosamente custodite da quelle poche società che le possiedono. Operativamente, sembra pressoché impossibile che un singolo paese possa riuscire a ricostruire internamente una capacità industriale che abbracci tutti i passaggi della filiera. Uno sforzo che sarebbe economicamente insostenibile. In uno scenario ipotetico in cui ciascuna regione persegua una strategia di autosufficienza industriale e tecnologica, a livello globale gli investimenti dovrebbero ammontare tra i $900 miliardi e $1,225 trilioni, i costi operativi annuali aumenterebbero tra i $45 e i $125 miliardi, mentre si registrerebbe un aumento nei prezzi complessivi dei semiconduttori tra il +35 e +65%”.

Già oggi, nel mercato globalizzato, riescono a sopravvivere solo poche società che attraggono ordini da tutto il mondo. Come potrebbero sostenersi filiere parallele, ricostruite ognuna su più ristretta scala nazionale? Dati gli alti costi di produzione, ricerca e sviluppo, sembra improbabile che nuovi attori possano prosperare in un mercato dei semiconduttori altamente compartimentato come quello che si realizzerebbe se ogni paese puntasse alla propria autonomia

Fonte: Elaborazione ISPI su dati tratti dal Policy Brief “CHIPS Act will spur US production but not foreclose China” di Gary Clyde Hufbauer e Megan Hogan

La capacità di anticipare le tendenze di mercato, per individuare un segmento trainante potrebbe però anche ribaltare le attuali gerarchie tecnologiche. La penuria di microchip basati sul silicio in seguito alla pandemia ha aperto un mercato alternativo  come quello dei microchip al carburo di silicio (SiC) e al nitruro di gallio (GaN), già impiegati da Infineon. I SiC sono essenziali per il controllo dei sistemi dei veicoli elettrici. Seppur il mercato sia ancora relativamente ristretto e persistano costi di produzione di wafer al carburo di silicio più elevati rispetto ai tradizionali, l’aumento della domanda potrà garantire l’economia di scala necessaria. È in questo segmento alternativo che la Cina potrebbe replicare un modello di sviluppo industriale già mostratosi vincente in passato: contare su una tecnologia già matura, sfruttare la domanda interna e beneficiare di trasferimenti tecnologici dai centri di ricerca cinesi supportati dallo Stato.

Anche le innovazioni della struttura stessa dei microchip, per affrontare i limiti fisici della miniaturizzazione dei transistor, saranno un elemento chiave per l’evoluzione del mercato. Samsung al momento sta guidando la transizione dai microchip di tipo FinFET a quelli di tipo GAA per i nodi da 3 nm, un percorso che TSMC non ha ancora intrapreso. Ma le incognite di questo passaggio rimangono molteplici.

Fonte: IBS, AnySilicon, TSMC

A essere però definitivamente cambiato con la crescente contrapposizione tra USA e Cina è il ruolo della politica in un settore che fino a quel momento era un mercato senza alcuna condizione. Sotto questo punto di vista, il potere negoziale degli USA non va sottovalutato. Considerato il clima di alta tensione internazionale seguito all’invasione russa dell’Ucraina (nel quale i paesi hanno approfondito i rapporti strategici con l’alleato statunitense) e soprattutto la portata extraterritoriale delle clausole del Dipartimento del Commercio, il presidio geo-tecnologico di Washington rimane formidabile.

L’ostilità di Washington verso le ambizioni tecnologiche della Cina è un fattore che si è radicato nel profondo dell’establishment americano. Nonostante la riluttanza a conformarsi al nuovo corso, molti tra gli alleati statunitensi hanno ben chiaro che la prospettiva statunitense non è destinata a cambiare con l’alternanza di amministrazioni repubblicane e democratiche. Prendendo atto di questo stato di cose, alcuni paesi cercano di attrezzarsi per affrontare il nuovo conflitto tecnologico e mettere al riparo il proprio capitale industriale. Olanda e Corea del Sud, ad esempio, stanno cercando di coordinare una serie di investimenti olandesi (in primis ASML) in Corea, per limitare l’esposizione ai contraccolpi esterni e garantire la stabilità della produzione di microchip.

Tuttavia, i meccanismi messi in atto finora dagli USA presentano grossi difetti strategici, che potrebbero seriamente inficiare il coordinamento politico coi propri alleati. Il decisionismo dalle venature fortemente unilaterali che negli ultimi mesi ha caratterizzato le misure adottate da Biden è stato forse necessario per mostrare una leadership risoluta, almeno nella percezione del governo statunitense, ma non è piaciuto per nulla agli alleati, che in qualche caso hanno espresso più o meno apertamente il proprio dissenso. Il limbo in cui è caduta l’iniziativa di coordinamento “Chip 4” ne è la prova.

La cortina di sicilio

La cortina
di silicio

È difficile che il mondo venga diviso da una nuova guerra fredda tecnologica. La vera incognita rimane però il destino di Taiwan.

Per questi motivi, difficilmente il mondo dei prossimi anni verrà rigidamente diviso in due da una “cortina di silicio”. Il confronto in atto tra Cina e USA si colloca infatti in un contesto internazionale radicalmente diverso rispetto alla Guerra fredda, e nessun attore desidera essere messo di fronte a una scelta netta che possa pregiudicare l’accesso al mercato cinese o la collaborazione high-tech con la Silicon Valley. E poi perché gli intricati network delle filiere globali rendono questa competizione un gioco in cui è difficile ponderare gli effetti a catena imprevisti: con l’allontanamento delle aziende cinesi dall’ecosistema dei microchip, gli USA avrebbero meno influenza strategica sul rivale, lasciando un ampio margine di mercato per lo sviluppo dei chipmaker cinesi. A loro volta,  le aziende straniere tenderebbero poi ad escludere la tecnologia americana dai loro sistemi per aggirare le restrizioni e poter così guardare alle opportunità di crescita commerciale in Cina.

Dipendenti cinesi vestiti con indumenti antipolvere lavorano nello stabilimento di Nantong Fujitsu Microelectronics Co., Ltd nella città di Nantong, nella provincia di Jiangsu, nella Cina orientale (Fonte: Oriental Image via Reuters Connect)

C’è però un’incognita (geo) politica ben più pensate di altre per il settore, ed è il futuro di Taiwan. Per Pechino, si tratta infatti di una questione irrisolta, che si trascina fin dai tempi della guerra civile, quando nel 1950 il governo nazionalista di Chiang Kai-shek si rifugiò sull’isola, in fuga dalle forze comuniste.

Nel caso di invasione cinese, le ripercussioni sul sistema internazionale sarebbero devastanti. Non solo un paese filo-occidentale e saldamente democratico finirebbe sotto l’autorità di un governo autoritario, ma i costi per l’economia globale si stimano essere in trilioni di dollari. In questo scenario, la supply chain dei semiconduttori ne risulterebbe fortemente danneggiata. Molti analisti suggeriscono che lo “scudo di silicio” e le profonde interconnessioni tra Cina e Taiwan nella filiera dei microchip rappresentino tuttavia un deterrente economico sufficiente a scongiurare tale ipotesi. Eppure, le manovre militari seguite alla visita di Nancy Pelosi a Taipei hanno ricordato al mondo che Xi Jinping non può permettersi di rinunciare a priori all’uso della forza. Secondo la Cina, la sovranità su Taiwan è semplicemente non negoziabile e la riunificazione dell’isola andrà compiuta manu militari se proprio non potrà avvenire in modo pacifico .

Fonte: WSTS data, SIA, BCG

Nessuno a Pechino nutre l’illusione che un’invasione di Taiwan possa concludersi senza costi elevati, sia sul piano economico che sul piano della politica internazionale. Le ritorsioni occidentali sarebbero estremamente pesanti nel caso di un attacco, in risposta del quale oltretutto gli USA interverrebbero militarmente. Proprio per questa ragione, l’autosufficienza tecnologica è destinata a restare un elemento fondamentale nella visione politica di Xi Jinping: ridurre la vulnerabilità esterna di cui soffre ancora molto la Cina importando la gran parte dei propri microchip sarà una priorità. Ma se da un lato il governo di Pechino è deciso a perseguire con tutte le proprie forze lo sviluppo tecnologico in chiave strategica, dall’altro gli USA sono altrettanto determinati a impedire che i semiconduttori possano essere usati dalla Cina per avanzare i propri piani di ammodernamento militare.

Attorno ai microchip sta emergendo quindi un serrato confronto internazionale che contrappone due potenze globali con interessi divergenti, se non contrastanti. Nonostante Cina e USA siano i chiari protagonisti della partita dei semiconduttori, anche importanti attori sparsi tra Asia ed Europa potranno giocare un ruolo decisivo. Ricercatori, ingegneri, tecnici e amministratori delegati, ma anche clienti e consumatori: il futuro dei semiconduttori verrà deciso da loro, più che negli uffici di Washington o Pechino.

Guido Alberto
Casanova

Giornalista e analista, collabora con ISPI e si occupa di Asia e in particolare della relazione fra commercio e tecnologia.

Alberto
Prina Cerai

Editorial Research Assistant, Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM). Si occupa inoltre di critical raw materials e tecnologia.

FEBBRAIO 2023

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